venerdì 3 giugno 2011
Gli attacchi informatici condotti contro numerosi account di posta Gmail sarebbero partiti dall’accademiab di Jinan. Nel mirino politici, giornalisti, militari e dissidenti in esilio. La Casa Bianca assicura: «Noi non siamo stati colpiti». Già l’anno scorso il colosso finì sotto tiro.
- Il caos calmo della «guerra digitale» di Giuseppe Romano
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Un anno fa il braccio di ferro – fatto di hacker, intrusioni, accuse e successivo gelo diplomatico – finì per “schiacciare” Google: il più grande motore di ricerca al mondo fu costretto a lasciare la Cina e a traslocare a Hong Kong. Ieri la nuova “intrusione” ha scatenato un fuoco di fila di botta e risposta, gettando una nuova ombra sui rapporti tra Stati Uniti e Cina. La denuncia del colosso americano di Internet punta il dito direttamente contro Pechino. Gli account di posta elettronica Gmail – il servizio di posta elettronica di Google – di alti responsabili politici americani e di Paesi asiatici tra cui la Corea del Sud, di giornalisti, militari e di attivisti del dissenso cinese, sarebbero stati “piratati” in una serie di attacchi provenienti dalla Cina. Gli account violati sarebbero centinaia e l’attacco, proveniente da Jinan – sede di un’accademia dove vengono reclutati dall’esercito giovani talenti del software, la “Lanxiang vocational school”, già imputata per gli attacchi dell’anno scorso – aveva come obiettivo di leggere la posta elettronica delle persone finite nel mirino degli hacker. Come ha spiegato Eric Gross, uno dei responsabili per la sicurezza del colosso di Mountain View, Google ha informato le autorità americane e le vittime dell’attacco. «Abbiamo recentemente scoperto una campagna con l’obiettivo di raccogliere password, probabilmente attraverso il phishing», ha indicato Gross, aggiungendo che «l’obiettivo di questa manovra sembra essere stato di sorvegliare il contenuto di questi conti». In una conferenza organizzata dal Wall Street Journal il presidente di Google, Eric Schmidt, ha voluto sottolineare che «Google è molto più protetta rispetto ad un anno fa», e di avere scoperto recentemente che «numerose altre società sono state attaccate in maniera analoga», ma che molto di loro non lo hanno pubblicamente segnalato. Secondo Schmidt, «è meglio essere trasparenti su queste cose». L’obiettivo degli hacker era di intrufolarsi nella stanza dei bottoni dell’Amministrazione americana? La Casa Bianca ha in realtà cercato di buttare acqua sul fuoco. «Non abbiamo nessuna ragione di credere che conti e-mail del governo siano stati piratati», ha fatto sapere un portavoce della Casa Bianca, Tommy Vietor, precisando però che l’Amministrazione Usa ha deciso di avviare una inchiesta. «Stiamo esaminando i rapporti, e stiamo tentando di stabilire i fatti», ha aggiunto Vietor. Da parte sua il segretario di Stato Usa, Hillary Clinton ha definito le accuse lanciate da Google nei confronti della Cina, come «molto gravi»: «Le prendiamo sul serio e le stiamo esaminando», ha aggiunto la Clinton. È la tempistica dell’attacco ad essere sospetta. L’intrusione arriva – puntuale – dopo che il Pentagono ha annunciato di aver messo a punto la sua prima cyber strategia, basata sulla deterrenza. E che prevede che il sabotaggio informatico provocato da un Paese straniero sia considerato come un atto di guerra. E Pechino? La reazione delle autorità cinese è stata immediata. E stizzita. Il portavoce del ministero degli Esteri, Hong Lei ha definito «inaccettabili» le accuse mosse dal motore di ricerca Usa. «Affermare che il governo cinese sostenga gli attacchi hacker è una totale invenzione e nasconde secondi fini», ha affermato Hong Lei. Gli analisti si chiedono ora se sia destinato a ripetersi il copione dello scorso anno. Quando un attacco analogo portò a un progressivo raffreddamento dei rapporti tra Cina e Stati Uniti. Allora fu un crescendo di tensioni. L’intrusione degli hacker a inizio 2010 segna l’inizio della crisi. Il 21 gennaio il segretario di Stato Usa, Clinton tira fuori l’argomento principe della schermaglia tra i due Paesi: la libertà della Rete, inquinata dal solidificarsi di una preoccupante «cortina», secondo le parole del Segretario di Stato Usa. La replica di Pechino fu anche allora al vetriolo. L’intervento della Clinton? «Dannoso», tale da mettere addirittura «a rischio i rapporti fra Stati Uniti e Cina».
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