venerdì 2 gennaio 2009
Migliaia di bambini si svegliano di notte: «Dopo 8 anni di esplosioni il 20% dei pazienti psichiatrici è affetto da panico permanente». A Beer Sheva un razzo Grad squarcia il soffitto della scuola: «Poteva essere una strage».
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«Lei mi chiede “in tempi normali” quanti palestinesi ricoveriamo ogni giorno? È dai tempi di Sansone che non c’è stato un giorno normale qui ad Ashqelon. Anche prima che chiudessero il valico di Eretz arrivavano giovanotti con le ginocchia spaccate dai proiettili: erano quelli di Fatah, che i miliziani di Hamas andavano a prendere di notte casa per casa per ridurli poi così». Ron Lobel ha 57 anni, gli occhi azzurro chiaro, una barba rossa che vira al grigio, una schietta discendenza yiddish e un posto di grande responsabilità, visto che oltre che medico internista è direttore dei servizi di emergenza del Barzilai Medical Center di Ashqelon, antica città filistea, dove Sansone allestì un enigma crudele per risolvere il quale corse il sangue e si ordirono congiure. E un enigma – non lo stesso, certamente – anche oggi siamo costretti a tentare di risolverlo: come si può vivere in una città in cui dieci, venti volte al giorno la sirena dell’allarme annuncia l’arrivo di un missile Qassam lanciato da Gaza e da quel momento hai quindici secondi di tempo per metterti al riparo prima che un boato – lontano o vicino cambia poco – ti faccia tirare un sospiro di sollievo e tu possa dire: anche stavolta ce l’ho fatta? Dalia Tal, che gestisce la mensa dell’ospedale, ha due figlie, una nell’aeronautica militare, l’altra nei servizi a terra. Prova lei a rispondere: «Quando arriva il missile penso a loro due. E dico, meglio me che le mie figlie... ». Ma innegabilmente una differenza profonda – e forse qui sta la soluzione dell’enigma – tra il giornalista che arriva per la prima volta a Ashqelon e chi da otto anni si aspetta ogni momento un razzo malandrino la puoi scorgere nei singoli movimenti, nei gesti ritualizzati, nella sconcertante lentezza con cui gli abitanti di questa città si mettono al riparo e scendono nei rifugi: noi giornalisti corriamo, con il cuore in gola e nelle orecchie un orologio segreto che conta i secondi, loro no, fanno tutto con meccanica efficienza, affrontando l’ingorgo di telefonate ai parenti, ai figli, agli amici, dopo ogni botto. Perché questa è diventata la normalità di questa bella cittadina affacciata sul mare, come è diventato normale incassare la testa nel collo a Sderot, piuttosto che a Yad Mordechai. « Ma non creda che ci si abitui – dice il dottor Lobel –, per mesi migliaia di bambini si svegliano con la paura e vanno a dormire con la stessa paura. Il 20% dei pazienti dei nosti reparti psichiatrici è affetto da una sindrome permanente di panico, patologie dalle quali non guariranno mai più. Questo è il danno vero dei Qassam, non le buche che fanno nei marciapiedi o i dodici morti all’anno. E tra l’altro stanno colpendo sempre più lontano e sempre più precisi » . È vero. Ce ne rendiamo conto a Be’er Sheva, capitale del Negev e antichissima città dove Isacco fece scavare sette pozzi ( donde il nome), duecentomila abitanti, la sesta città di Israele e soprattutto un luogo che si credeva fuori della portata dei missili di Gaza. Ma sul finire del 2008 la sorpresa è stata amarissima: basta uno sgangherato Grad da 122 millimetri di ideazione sovietica rifatto in Cina o in Iran e spedito da mani e tunnel clandestini nella Striscia per fare una corsa di oltre cinquanta chilometri e sfondare il soffitto di una scuola elementare a poche ore dalla fine dell’anno. E tutti, dal ministro degli Esteri israeliano Tzipi Livni a noi cronisti attoniti ce ne stavamo con il naso all’insù, a rimirare questo squarcio nel soffitto e domandarci cosa sarebbe successo se in quel locale ci fossero stati anche gli alunni. « Il difficile sarà recuperare alla normalità i bambini ansiosi e quelli emotivamente destabilizzati quando riapriremo la scuola », dice la direttrice Gila Belaish. Normalità. Parola che nella costellazione di città che attorniano la Striscia di Gaza assume un significato per noi imparagonabile, e in parte inedito anche per loro. « Ora che i missili arrivano anche qui – dice Yitzhak Yagna, pensionato di Be’er Sheva – capisco cosa hanno provato in questi anni gli abitanti di Ashqelon, di Ashdod, di Sderot. E adesso ho paura anch’io » . Ma non è il solo. Ieri a Tel Aviv si sono cominciati a preparare i rifugi pubblici e altre misure di emergenza nell’ipotesi, ritenuta per ora remota, che Hamas disponga di razzi in grado di coprire i settanta chilometri che separano il nord della Striscia con la capitale dello Stato di Israele.
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