Lo stallo della guerra nel Villaggio Potëmkin
sabato 24 giugno 2023

Quando verso la fine del XVII secolo l’imperatrice Caterina ordinò al suo protetto, il conte Grigorij Aleksandroviè Potëmkin, di garantire al già vasto impero russo un conveniente sbocco nei mari caldi, il condottiero fondò per lei la città di Kherson, creò il porto di Sebastopoli in Crimea e soprattutto diede il nome a un villaggio turco sul Mar Nero vicino alla foce del Dnepr che chiamò Odessa. Per non deludere le aspettative della zarina che aveva intrapreso un viaggio per ammirare le sue nuove conquiste, Potëmkin giocò sul sicuro, costellando il tragitto di Caterina di quinte di cartapesta con finti pastori e pescatori che da allora finirono per essere chiamati con dispregio «Villaggi Potëmkin».

Il sanguinoso stallo della guerra d’invasione dell’Ucraina rassomiglia a modo suo a un Villaggio Potëmkin. Ma questa volta ad essere di cartapesta è la potenza russa, duramente messa alla prova da sedici mesi a questa parte dall’inaspettata reazione di Kiev e costretta a fare i conti con una macchina bellica che a confronto con la generosa e non di rado eroica Armata Rossa – quella che nel 1945 liberò Berlino e a prezzo di milioni di vite ricacciò i nazisti fino al bunker della cancelleria – è piuttosto la tragica caricatura di un esercito malgovernato e forte solo del numero più che dell’acume dei suoi strateghi.

A ben guardare, la Russia stessa è un grande Villaggio Potëmkin: la sgangheratezza della sua classe dirigente, l’uso smodato del ringhio minaccioso dei suoi capi (il cane da guardia di Putin Medvedev ne è campione incontrastato, ma Putin stesso non si sottrae: «Se volessimo potremmo radere al suolo il centro di Kiev»), il ricorso sempre meno velato all’uso di armi nucleari tattiche rivolto all’Ucraina e alla Nato nonché – extrema ratio – ai missili balistici intercontinentali Sarmat (l’arma “fine di mondo” del Dottor Stranamore) ne sono il lato più appariscente. Condito peraltro dal sospetto condiviso da molti analisti che le fantomatiche armi ipersoniche «impossibili da intercettare» siano una favoletta che i generali russi abbiano lucrosamente venduto al Cremlino, che fanno il paio con la “Dottrina Karaganov”, dal nome dell’ascoltato consigliere di Putin che – perfetto epigono di quel Samuel Huntington che teorizzava negli anni ’90 lo scontro di civiltà dopo la fine della Guerra Fredda – oggi predica l’inevitabilità di una punizione atomica contro l’Occidente «per riportarlo alla ragione con la paura».

Bisogna credergli? O è solo un bluff? La mordacchia nei confronti della stampa, il divieto di espatrio a dirigenti e funzionari governativi nel timore che non facciano più ritorno, i blandi accomodamenti con il ceto medio moscovita e pietroburghese (i cui figli vengono educatamente esentati dalla coscrizione obbligatoria), i sempre più inquieti oligarchi strettamente legati al cerchio magico del presidente, tutto ciò fa solo pensare a un sistema-Paese tenuto insieme da una quinta teatrale che ne offre il lato più appagante senza mostrare cosa ci sia dietro la cartapesta di uno stallo sul campo, il cui unico e poco apprezzabile risultato è quello di accrescere la catasta di morti da entrambe le parti, in attesa di una soluzione che ancora non si intravede. Ma in fondo, a queste rasserenanti autoipnosi la Russia è da sempre abituata.

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