giovedì 5 luglio 2012
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Quando li hanno ritrovati, dopo 12 giorni sepolti fra le macerie, Jeff, Jean-Marie e Salomon Max sorridevano. Perché uno dei soccorritori aveva fatto loro una carezza. Questi piccoli – rispettivamente di sei, otto e nove anni – non erano abituati a gesti affettuosi. Da quattro anni – fino al tremendo terremoto del 12 gennaio 2010 che fece crollare la casa sulle loro teste –, i bambini erano costretti a lavorare 14-16 ore, tutti i giorni, senza eccezioni.Non potevano andare a scuola né giocare con li amici. Gli adulti si avvicinavano loro solo per dare ordini o picchiarli alla minima mancanza. I tre erano cioè “restavek” (letteralmente “stare con”), la parola con cui si definiscono i baby schiavi. Per un drammatico paradosso della storia, il primo Paese in cui gli schiavi si ribellarono e vinsero contro i padroni, è anche quello dove il vergognoso istituto sopravvive. Grazie a una tradizione, più forte della legge che ha abolito la pratica nel 2003. E alla miseria dilagante: prima e dopo il sisma.Le famiglie delle misere campagne – dove non ci sono scuole, servizi igienici minimi, ospedali – spesso, affidano i figli a parenti o conoscenti in cambio della vaga promessa di farli studiare. «Non hanno idea di quale futuro attende i piccoli», spiega ad Avvenire Fiammetta Cappellini, responsabile di Avsi ad Haiti che insieme a Unicef lavora contro la schiavitù infantile nell’isola. In realtà, la gran maggioranza delle volte, i bambini si trasformano in servi tuttofare. Gli abusi, fisici, psicologici, sessuali, sono una drammatica costante. Prima del terremoto – fonti umanitarie consultate da Avvenire – parlavano di ameno 300mila restavek nell’isola. Dopo il sisma, il numero sarebbe cresciuto ulteriormente dato l’impoverimento generale. E la condizione dei piccoli sarebbe ulteriormente peggiorata.I restavek è solo uno dei tanti, troppi volti con cui la schiavitù infantile si mostra in America Latina. Qui almeno 14 milioni di bimbi sono costretti a lavorare. Molti di loro in condizioni di vera schiavitù, nonostante 26 Paesi della regione abbiano ratificato la convenzione dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) contro lo sfruttamento della manodopera minorile. Ricevono un quinto del salario minimo e quasi tutti non arrivano ai 45 anni di vita: la fatica compromette il loro sviluppo. I piccoli, infatti, svolgono mansioni pesanti. La maggior parte è impiegata nei campi. Tanti lavorano nelle miniere o nelle fabbriche di mattoni. O nelle cave d’argilla.Come i piccoli di Huachipa, in Perù, nazione in cui i baby-schiavi sono oltre 3,3 milioni. Solo nel deserto di fango di Huachipa se ne contano mille, circa 150 avevano meno di nove anni. Di loro si occupa dal 2006 l’Ong Terre des Hommes che cerca di far frequentare la scuola ai piccoli e assicura loro visite mediche periodiche. Uno studio di Terre des Hommes ha rivelato che i bimbi sono obbligati a lavorare fino a 70 ore alla settimana. Normale che in queste condizioni, meno della metà frequentasse la scuola prima dell’arrivo dell’Ong. Ora le cose stanno cambiando, lentamente. Il tasso di istruzione è in aumento. E con questo la speranza di un futuro diverso, lontano dal fango di Huachipa.Per informazioni e donazioni: Avsi, Terre des hommes, Unicef
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