lunedì 20 maggio 2013
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Gli esperti militari sono concordi: la prossima rivoluzione militare sarà robotica. Il campo di battaglia è sempre più tecnologico e i sistemi automatizzati sono abbastanza “evoluti” da poter innovare drammaticamente il modus operandi della guerra. I robot sono già impegnati da molti degli eserciti più avanzati del mondo: alcuni sminano, altri esplorano, altri però sparano. I teatri iracheno e afghano sono stati in questo dei giganteschi laboratori di prova. Perfino il Rusi (Royal United Services Institute) ha più volte denunciato il pericolo di una corsa alle armi robotiche e i rischi conseguenti per l’umanità. È uno fra i più influenti think-tank del mondo della difesa, tutt’altro che pacifista. «Sarà il secolo dei robot: gli automi cingolati, i velivoli automatizzati e le cimici nanotecnologiche diventeranno la peggiore iattura per la sicurezza delle persone», afferma interdetto Noel Sharkey, professore di scienze informatiche all’Università di Sheffield. La prospettiva, ormai ventura, è quella di un’automatizzazione dell’uso della forza, dell’atto di uccidere e di distruggere. I missili antirazzo israeliani Iron Dome possono già decidere se annientare un razzo nemico in funzione della sua pericolosità, senza alcun intervento umano. Altrettanto fanno alcuni cannoni della Marina americana (Mk Phalanx). Fortunatamente sono mezzi difensivi, ma il salto fatidico all’azione offensiva non è lontano, nonostante la prudenza attuale di alcuni stati maggiori militari. Quando il Quinto Corpo d’armata statunitense invase l’Iraq, nel 2003, non possedeva che un drone e nessun robot terrestre. Cinque anni dopo allineava in teatro 12mila mezzi automatici, fra cui i famigerati Swords, armati di mitragliatrici, fucili di precisione e lanciagranate, mai attivati. Lo Swords può colpire un frammento a 300 metri di distanza, mentre un fante ben addestrato non ci riuscirebbe. É infinitamente più “economico” di un uomo in operazioni: un combattente inviato in Afghanistan “costa” al Fisco americano un milione di dollari l’anno. Uno Swords non supera i 150mila dollari. È il solito connubio fra soldi e guerra, che tende a trascurare o addirittura ignorare l’etica. Il successore dello Swords, Maars, è una vera e propria macchina per uccidere: può essere imbottito di armi e di altoparlanti, per intimare al nemico la resa o invitare i civili ad evacuare un’area. Entro pochi anni, un terzo di tutto ciò che combatte nell’esercito americano o israeliano sarà telecomandato. Con quali rischi per i civili inermi? Emula di Washington e Gerusalemme, anche Parigi sembra aver valicato la linea rossa. Senza annunciarlo pubblicamente, avrebbe accolto nel 2011 il principio dei robot-killer. La prudenza dello scrittore di fantascienza Isaac Asimov e le prescrizioni della convenzione di Ottawa (sulle mine antiuomo) sembrano finite nel dimenticatoio. Nel 2035, nell’esercito francese ci sarà spazio per gli “automi” armati. In termini militari è già domani. Le macchine tenderanno a compensare la riduzione di risorse e di effettivi negli eserciti occidentali e ad affiancare gli uomini in una molteplicità di compiti, soprattutto in ambiente urbano. Il che solleva interrogativi angoscianti. Il dispiegamento di robot-killer in contesti complessi inasprisce i timori di una disumanizzazione della guerra. L’allarme è già stato lanciato da un rapporto di Human Rights Watch e dell’Harvard Law School of International Human Rights Clinic. I robot che potrebbero essere sviluppati nei prossimi 20-30 anni decideranno in autonomia quali obiettivi eliminare. Negli Stati Uniti, c’è già un esempio. Il progetto X-47C punta a sviluppare un drone d’attacco (Ucav) capace di realizzare missioni in totale autonomia, decollando da una portaerei con più di quattro tonnellate di bombe. Washington vi ha investito 1,4 miliardi di dollari in otto anni e l’agenzia del Pentagono per la ricerca tecnologica (Darpa) ha sfornato un dimostratore capace di eludere i radar avversi e di proporre al comando una o più opzioni d’attacco, esplodendo le bombe, se autorizzato da terra. La corsa ai droni armati è appena cominciata. Almeno 12 sono i Paesi possessori di Ucav o in procinto di diventarlo (Usa, Israele, Iran, India, Regno Unito, Italia, Francia, Germania, Cina, Taiwan, Turchia e Russia). Altri 30 stanno studiando come ricalcarne le orme. C’è chi si lambicca e chi spia contemporaneamente. L’intelligence industriale cinese è bramosa d’informazioni sui semiconduttori, sui microprocessori e sui sistemi di guida e controllo, integrabili anche negli Ucav. E proprio Pechino ha appena svelato il suo Lijian. Secondo il quotidiano ufficiale Global Times, quest’Ucav invisibile ai radar, sarebbe guidato dal sistema di posizionamento autoctono Beidu, equivalente al Gps americano. Può colpire in profondità il dispositivo nemico, operando da basi terrestri o da portaerei. Ma siamo sicuri di essere sulla strada giusta? Se lo sono chiesto le università di Stanford e di New York, per le quali gli attacchi dei droni sono addirittura controproducenti e non garantiscono una migliore sicurezza agli Stati Uniti. Nel rapporto intitolato «Living under drones», gli studiosi americani hanno stimato per le aree tribali pachistane cifre drammatiche: dal 2004 ad oggi, i morti per mano degli Ucav sarebbero più di 3mila, fra cui 800 civili inermi.
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