mercoledì 26 gennaio 2022
I media britannici si interrogano da giorni sui costumi dei governanti e cresce il malumore dopo le continue rivelazioni sulle feste in casa di Boris Johnson
Il <pary gate>: la polizia busserà nei prossimi giorni al numero 10 di Downing Street

Il <pary gate>: la polizia busserà nei prossimi giorni al numero 10 di Downing Street - Ansa

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I «martedì del Prosecco», le spedizioni alla Co-op sullo Strand per acquistare bottiglie di rosè, valige utilizzate per trasportarle fino a Downing Street e cantinette refrigerate allestite in ufficio per conservarle. Sono alcuni dei pittoreschi dettagli del «party gate», lo scandalo dei festini a base alcolica avvenuti al N.10, quando il lockdown impediva qualsiasi forma di socialità, che sta facendo vacillare il governo di Boris Johnson. Schegge esplose nel furente dibattito sulle responsabilità del premier, reo di non aver mosso un dito per impedire gli eventi «illegali», che hanno portano a galla un inusuale spaccato di socialità British: la «cultura della sbronza». E ora provocato l’apertura dell’inchiesta.
«Portatevi il liquore», scriveva Martin Reynolds, segretario particolare di Johnson, nell’invito al party in giardino organizzato il 20 maggio 2020. È questa, ci si chiede, la cifra del linguaggio in uso nei palazzi del potere britannico? Sonia Khan, ex consulente del ministro Sajid Javid, ha denunciato in una lettera al Guardian che, da sempre, l’alcol fa da cornice alla quotidianità degli impiegati di Downing Street. A prescindere da chi comanda. Una «routine», dice, vista ai tempi dei conservatori Theresa May e David Cameron come a quelli dei laburisti Tony Blair e Gordon Brown. «L’unica cosa che cambiava, a seconda del premier di turno, era – scrive – la raffinatezza degli stuzzichini». Damian McBride, portavoce dell’esecutivo Labour tra il 2007 e il 2009, non ha avuto remore nel descriversi come «un alcolista funzionale» che beveva per affrontare «ore incredibilmente lunghe» di lavoro. Motivazione che richiama il motto «work hard, drink hard» (lavora tanto, bevi tanto) diffuso tra i giovani collaboratori dell’attuale governo Tory. La storia britannica è piena di aneddoti sul ricorso a alcol di ogni tipo – vino, birra, gin, sherry – come lubrificante degli ingranaggi della politica. Il tintinnio dei bicchieri è da secoli, scriveva Ben Wright nel 2016 sul Times, «il metronomo della vita a Westminster, come i ritocchi del Big Ben».
Tornata sotto i riflettori con il «party gate», la cultura del bere, infatti, non fa più di tanto rumore. L’approccio prevalente è una sorta di liberismo che lascia ai singoli la responsabilità di un cicchetto in ufficio purché non ne comprometta la produttività. La passione di Winston Churchill per lo champagne Pol Roger e per il whiskey Johnny Walker, viene osservato, in fondo non ne ha mai compromesso lo spessore da statista. I giornalisti dell’Economist, riferisce un editoriale del settimanale, «sono noti per combinare Claret e tastiera». L’importante, sottolinea, è non «stigmatizzare i non bevitori» e «normalizzare la moderazione». Sfida non da poco soprattutto se insidiata dalla lobby dei produttori. Uno studio della London School of Hygiene & Tropical Medicine, condotto sul materiale distribuito nelle scuole dalle associazioni che promuovono tra il «bere consapevole», ha rilevato un approccio «fuorviante» al tema. I programmi posti a scrutinio, è il risultato, predicano la «familiarizzazione» con l’alcol, prodotto di consumo «normale» per gli adulti, ma inciampano nella «presentazione selettiva dei danni» scivolando nella «disinformazione sul cancro».

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