venerdì 3 gennaio 2020
Due giorni dopo l'assalto all'ambasciata statunitense in Iraq, Trump ha ordinato di eliminare Qassem Soleimani, capo delle milizie al-Quds di Teheran: ecco chi era
Il soldato-stratega che ha schiacciato la minaccia del Daesh
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«Sono nato soldato e morirò da soldato». Questa promessa l’aveva fatta Qassem Soleimani all’ayatollah Ali Khamenei in una lettera diventata di dominio pubblico. Promessa che il generale aveva sempre mantenuto, ignorando l’invito dei suoi simpatizzanti a candidarsi alla presidenza dell’Iran, come avevano fatto diversi altri capi pasdaran. Come comandante della famigerata Brigata Gerusalemme (la Forza Quds), la divisione speciale che si occupa delle operazioni extraterritoriali dei pasdaran, Soleimani non cercava altra notorietà. La sua nomina, decisa dall’ayatollah Khamenei, aveva dato a questo uomo proveniente da una famiglia di poveri contadini eccellenti possibilità di arrivare molto in alto. E Soleimani le ha sfruttate tutte per diventare, nel giro di pochissimi anni, una figura seconda solo alla Guida suprema, tanto che era risultato in un sondaggio del 2018 molto più popolare tra gli iraniani dello stesso presidente Rohani, mentre il quotidiano Times lo aveva collocato tra gli astri nascenti del 2020. In verità, l’ascesa del generale risale a molto prima, più precisamente al 2014, quando aveva promesso in una diretta televisiva di sconfiggere il Daesh in tre anni, allorché il gruppo jihadista sembrava invincibile dopo la proclamazione del Califfato.

Nello stesso anno la rivista americana Newsweek gli dedicava una copertina che lo raffigurava con la sua solita espressione sobria, incorniciata dalla divisa verde e la barba grigia. «Prima combatteva contro l’America, ora sta schiacciando il Daesh», il titolo altisonante. Soleimani era giunto qualche mese prima in Iraq per assistere le milizie sciite locali nell’offensiva contro i jihadisti in base a una precisa strategia. «Dobbiamo – spiegherà in un’intervista – mettere in quarantena le nostre frontiere per aiutare i nostri vicini ed evitare che questo cancro (il Daesh, ndr) si diffonda nel nostro Paese». Nel corso di queste imprese militari, era diventato il proconsole di Teheran in una vasta area che si estende dall’Iraq al Mediterraneo, senza considerare il suo presunto ruolo in Afghanistan e Yemen. Dal ritratto tracciato da Marco Carnelos, già ambasciatore italiano in Iraq, emerge un Soleimani «campione di strategia», «scoperto» un po’ tardi dagli americani. Carnelos rivela che solo nel 2008, ossia un decennio dopo la nomina di Soleimani a capo della Brigata al-Quds, il generale David Petraeus, all’epoca comandante statunitense in Iraq, ha confidato a Silvio Berlusconi di essersi reso conto «solo di recente dell’importanza di Soleimani nelle dinamiche del Medio Oriente». «Non sorprende quindi – commenta Carnelos – che Soleimani sia stato in grado di muovere liberamente le sue pedine nella regione, sconfiggendo i suoi nemici».

Circa l’interesse americano al personaggio, Carnelos contesta la narrazione ufficiale. Il diplomatico italiano afferma, infatti, che furono gli americani a cercare di stabilire una relazione con gli iraniani. «Per oltre due anni a Baghdad, i funzionari statunitensi mi hanno chiesto più volte di trasmettere messaggi alle milizie sciite, e soprattutto di promuovere un dialogo diretto con le loro controparti iraniane. Ciò è stato sistematicamente respinto da due diversi ambasciatori iraniani con cui ho avuto a che fare, entrambi considerati membri dei pasdaran, e quindi agli ordini di Soleimani». Puro stratagemma oppure volontà sincera di dialogo? Non lo sapremo mai. Soleimani sapeva di essere nel mirino degli Stati Uniti e di Israele. Eppure, non stava, come al-Baghdadi, nascosto in un tunnel.

Lo si vedeva spesso sui diversi fronti siriani e iracheni insieme ai soldati, con gli stivali sporchi di fango, oppure seduto per terra a bere tè, a mangiare, a pregare. Era nello stesso tempo inafferrabile, compariva e scompariva. «È spesso a Baghdad e nel nord dell’Iraq», aveva detto di lui un leader sciita iracheno. «Il governo lo sa benissimo. È intelligente. È anche un uomo appassionato di guerra. Sa di essere bravo in essa». Venerdì Khamenei ha nominato il successore. Si tratta del generale di brigata Esmail Qaani, «uno dei comandanti più decorati» nella guerra contro l’Iraq, combattuta negli anni Ottanta. Toccherà ora a lui mostrare la sua bravura.

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