mercoledì 18 maggio 2022
Il materiale derivato dal petrolio è fatto per durare nel tempo. Un pregio che diventa il grande problema se lo si getta senza criterio
Tanto usa e getta, scarso riciclo: un Trattato contro l'emergenza plasti
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Necessario, atteso ma non scontato. Il 2 marzo scorso, dopo giorni di trattative, l’Assemblea delle Nazioni Unite per l’Ambiente (Unea), riunitasi a Nairobi, ha approvato all’unanimità il Trattato contro l’inquinamento da plastica. Un passo storico che segna un prima e un dopo sulla strada per la salvaguardia del pianeta e che sancisce l’importanza di trattare un’emergenza globale con strumenti globali. Del resto i tentativi dei governi di combattere un fenomeno che sta assumendo proporzioni gigantesche si sono dimostrati del tutto fallimentari. A dirlo sono i numeri che raccontano una tendenza contraria a quella a cui ci piace pensare nell’era green. La plastica è ormai ovunque: nei nostri mari e nei nostri fiumi ma anche sulla nostra tavola, nel sale da cucina, persino nel nostro sangue e nei nostri polmoni. Con conseguenze sconosciute. Non sappiamo ancora, infatti, cosa queste nuove 'entità chimiche', come le definisce Greenpeace nel più recente Rapporto sulla plastica, produrranno a lungo termine sulla salute umana. Da non tralasciare, poi, l’impatto sul cambiamento climatico: plastica uguale petrolio e quindi emissioni di CO2. E che, questione sconosciuta ai più, la plastica contribuisce ad aumentare le ingiustizie sociali e ad allargare la forbice tra Nord e Sud del mondo. Manca poco alla primavera. L’Unea si riunisce nella capitale kenyiota e la plastica fa la sua comparsa sui tavoli dell’Onu come convitato di pietra per uscirne al centro di un documento che impegna 175 Nazioni a elaborare entro il 2024 «uno strumento giuridicamente vincolante per porre fine all’inquinamento da plastica».

Una sorta di 'sosia' dell’Accordo di Parigi sul clima per regolare a livello globale le politiche relative alla produzione, al consumo e allo smaltimento dei rifiuti. Un Trattato che abbracci tutto il ciclo di vita della plastica. «Le misure nazionali fino ad oggi proposte si sono rivelate sparuti tentativi non omogenei che hanno puntato soprattutto sul falso mito del riciclo», commenta Giuseppe Ungherese, responsabile campagna Inquinamento di Greenpeace e autore del libro Non tutto il mare è perduto. Basti pensare che di tutta la plastica prodotta nella storia umana solo il 10% è stato riciclato correttamente, il 14 è stato bruciato e il 76% è finito in discariche o disperso nell’ambiente. La via maestra, dunque, sembra essere quella della riduzione dei rifiuti e questo Trattato sarà tanto più forte quanto più agirà in tal senso. Una strada di certo tutta in salita, la cui meta sembra ancora lontana.

Dal 2000 al 2015, infatti, è stato prodotto il 56% di tutta la plastica fabbricata dall’intera umanità, percentuale destinata a raddoppiare entro il 2030 e addirittura a triplicare al 2050. L’avversario più pericoloso è il monouso, uno dei simboli più iconici del boom economico occidentale. Oggi la plastica riservata all’usa e getta è il 36% di tutta la produzione globale. Un controsenso se si pensa che si tratta di un materiale destinato a durare nel tempo e che, invece, viene adoperato per pochi minuti, a volte secondi, per poi disperdersi nell’ambiente e tramutarsi in minuscole particelle, le microplastiche, che finiscono in mare. I nostri oceani ospitano una quantità di plastica destinata ad aumentare vertiginosamente fino a raggiungere 29 milioni di tonnellate annue al 2040. È come se ogni metro quadro di costa di tutto il mondo fosse ricoperto da 50 chili di rifiuti. A farne le spese sono cetacei, tartarughe marine, pesci e uccelli: 700 specie marine indispensabili per la biodiversità. E l’uomo non è esente. Tracce di microplastiche sono state trovate nel sangue umano dagli scienziati della Vrije Universiteit di Amsterdam con effetti ancora ignoti.

C’è poi un aspetto che viene del tutto tralasciato quando si parla di plastica e sui cui fa luce la British Plastics Federation con una percentuale che colpisce: fino al 99% di tutta la plastica mondiale deriva dalla trasformazione di combustibili fossili. Questo vuol dire che, se fosse una nazione, la plastica occuperebbe il quinto/sesto posto come principale fonte di gas serra e potrebbe raggiungere nel 2050 il terzo posto sul podio a fianco dell’India. Ma chi paga il conto di tutto questo? Innanzitutto le comunità locali vicino agli impianti, spesso persone fragili e disagiate che vivono lontane dai centri urbani. Nel rapporto Fossil Fuel Racism di Greenpeace USA si legge che più della metà delle emissioni di sostanze tossiche provenienti dalle raffinerie americane ha impatti diretti su persone di colore e a basso reddito. Nella Lousiana esiste un’area conosciuta come Cancer Alley (la via del cancro) per la forte concentrazione di stabilimenti di produzione di plastica dove si registrano tassi elevati di tumore oltre a numerosi problemi respiratori. Nei Paesi dell’Africa e del Sud-Est asiatico è nata la figura dei waste pickers, ovvero di coloro che sono addetti alla separazione dei rifiuti e che lavorano in vere discariche a cielo aperto. Parliamo anche qui di persone molto povere, che vivono in zone marginali e accettano di sottostare a condizioni di lavoro disumane e malsane.

«È in questi Paesi che scarichiamo un’enorme quantità di rifiuti. Posti come Malesia, Vietnam, Kenya e Nicaragua che non hanno impianti di smaltimento adatti e che finiscono per sversare i rifiuti nell’ambiente, peggiorando la qualità della vita di popolazioni che già vedono compromesso il loro diritto a vivere in un ambiente sano » dice Ungherese, che nel suo libro parla di «colonialismo dei rifiuti». Sono loro che pagano la nostra smania di consumo. Marco Armiero, noto storico ambientale e autore de L’era degli scarti, cronache dal Wasteocene, sostiene che il nostro sistema si tiene in piedi grazie agli scarti. Intendendo per scarti non i rifiuti in quanto tali, ma relazioni e intere comunità. A scapito della giustizia sociale. Urge pertanto un Trattato globale che affronti un’emergenza globale con strumenti vincolanti. Lo chiede l’ambiente, lo chiedono i diritti.

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