mercoledì 13 marzo 2024
Il meccanismo che sta dietro all’acquacoltura svela la contraddizione di un modello intensivo: parte del pescato proviene dall’Africa, dove i prodotti ittici potrebbero nutrire milioni di persone
Le enormi vasche utilizzate per l’acquacoltura, un sistema di allevamento intensivo che è anche causa di pesanti ripercussioni socioeconomiche

Le enormi vasche utilizzate per l’acquacoltura, un sistema di allevamento intensivo che è anche causa di pesanti ripercussioni socioeconomiche

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Si nutre il pesce allevato con il pesce pescato. Sembra un controsenso, eppure è il meccanismo che sta dietro all’acquacoltura, l’industria alimentare che cresce più rapidamente al mondo, tanto che in pochi decenni il volume prodotto dagli allevamenti di pesce, molluschi, alghe ha superato le quantità di pescato. In parallelo, anche il consumo pro capite di pesce è aumentato negli ultimi decenni (+3% l’anno dal 1961 al 2019): con l’Italia, quinta in Europa con 30 kg all’anno, al di sopra della soglia di consumo pro capite nel mondo (20 kg l’anno). Non è un caso, quindi, che la produzione mondiale di prodotti animali acquatici nel 2020 abbia raggiunto 178 milioni di tonnellate, di cui 90 milioni dalla pesca e 87 milioni dell’acquacoltura, a cui vanno aggiunti altri 36 milioni di alghe. Se la produzione della pesca è rimasta stabile dagli anni ‘90 a oggi, con il 35,4% degli stock ittici già iper sfruttato, la produzione in allevamento è aumentata del 4,5% annuo negli ultimi 10 anni. Questa crescita, però, porta con sé delle ricadute devastanti in termini di sostenibilità ambientale, sicurezza alimentare e sfruttamento delle risorse, finendo per inquinare paradisi naturali e distruggere piccole economie locali in varie parti del mondo. Com’è possibile? L’acquacoltura non doveva essere un’alternativa buona alla pesca intensiva? Ha senso indagare su questo modello produttivo, interrogandosi se esso possa contribuire davvero a rendere più sostenibile il sistema alimentare, come promette, a fronte di una popolazione mondiale che potrebbe raggiungere 9,7 miliardi di persone nel 2050. Lo ha fatto anche il regista e giornalista Francesco De Augustinis con un nuovo documentario, “Until the End of the World” (Italia, 2024, 58’), frutto di tre anni di lavoro. E molti sono gli aspetti che sono apparsi controversi negli allevamenti intensivi in acqua: in primis, il pescato viene utilizzato per produrre mangimi, principalmente farina e olio di pesce, di cui circa il 70% è destinato agli allevamenti ittici, ad esempio, quelli del salmone. Ma se l’acquacoltura usa il pesce stesso per nutrire gli animali che alleva, allora è chiaro come non possa essere la soluzione alla pesca intensiva. Viene criticato, soprattutto, l’utilizzo di quei pesci che si trovano alla base della catena alimentare: questi giocano un ruolo fondamentale, in quanto da essi dipende l’intero ambiente marino, ed è chiaro che il loro sovrasfruttamento possa portare a danni notevoli.

Ma non è tutto: a livello di impatto ambientale bisogna ragionare sul fatto che ogni 100 tonnellate di spigole e orate prodotte in Grecia vengono riversate in mare 9 tonnellate di nitrati. E ancora, per ogni 1000 tonnellate di pesce prodotto vengono riversate in mare 0,21 tonnellate di mangimi non consumati e 2,16 tonnellate di deiezioni che pure vanno a deturpare l’ecosistema del mare. Restando nella Penisola ellenica, che assieme a Spagna, Francia, Italia, e Polonia è tra i maggiori produttori di acquacoltura, la maggior parte degli allevamenti si trovano tra i 50 e i 200 metri dalla costa, in aree di mare protette dalla corrente che storicamente hanno sfruttato la bellezza del paesaggio e la natura incontaminata per crescere a livello turistico; anche in questo caso, l’aumento dell’acquacoltura comporta conseguenze per il turismo, che rappresenta il 20% dell’economia greca e per alcune isole più piccole è l’unica fonte di sostentamento.

L’utilizzo della pesca finalizzata alla produzione di farine e oli di pesce per creare mangime per gli allevamenti intensivi in acqua, oltre a inquinare i fondali marini, è la causa di pesanti ripercussioni socioeconomiche, legate al concetto di sovranità alimentare. Negli ultimi 10 anni queste fabbriche di farina e olio di pesce – stando a un recente report della Ong inglese Feedback – sono aumentate da 5 a 49 in Africa Occidentale, in particolare in Mauritania, Senegal, Gambia. E una specie chiave come le sardine, indispensabile fonte proteica per gli abitanti di quegli stessi Paesi affacciati sull’oceano Atlantico, è in pericolo perché pescata principalmente per produrre mangimi.

Ma non si tratta solo delle sardine: nel 2020 quasi 2 milioni di tonnellate di pesci selvatici, perfettamente edibili, sono stati usati per produrre olio di pesce per i mangimi solo dei salmoni norvegesi. Una buona parte di quel pesce proveniva dagli stessi Paesi dell’Africa Occidentale dove avrebbero potuto nutrire milioni di persone, in aree a rischio di insicurezza alimentare. In altre parole, per nutrire il pesce che verrà servito nei ristoranti europei e del Nord America, milioni di persone vengono private delle proteine animali necessarie alla loro dieta alimentare. A farne le spese è anche l’economia locale, in particolare milioni di donne che, prima dell’arrivo delle fabbriche di olio e farina di pesce, tradizionalmente producevano pesce affumicato, salato ed essiccato che acquistavano dai pescatori del posto e rivendevano sul mercato locale. Ora gli stessi piccoli pescatori, per un prezzo più alto, vendono direttamente alle fabbriche lungo la costa, che producono con i piccoli pesci pelagici pescati il mangime da utilizzare per l’acquacoltura. Che sia una forma anche questa di colonialismo, che mette in luce, ancora una volta, il perenne conflitto per le risorse legato al crescere smisurato di questa industria che serve a soddisfare noi consumatori occidentali “intensivi”?

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