mercoledì 22 marzo 2023
La quota di materiali riutilizzabili grazie al riciclo è ancora troppo esigua per rappresentare una soluzione a breve termine: anche per questo si riprende a scavare
Se la transizione ha un prezzo: così il mondo decide di tornare in miniera
COMMENTA E CONDIVIDI

«La Svezia ha dato l’ok a un controverso progetto minerario che mette a rischio l’habitat delle renne e bloccherà i percorsi di transumanza». Lifegate l’ha annunciato così, il 29 marzo dello scorso anno. E Greta Thunberg ha bollato la decisione dei socialdemocratici svedesi come un «approccio a breve termine, razzista, coloniale e ostile alla natura». Dietro di lei, si sono mosse le Nazioni Unite e Amnesty international, preoccupati per i pastori Sami, che governano le renne. La risposta del governo di Stoccolma? Lapidaria: «Sì, amiamo le miniere, noi socialdemocratici». Se le parole del ministro dell’Industria svedese Karl-Petter Thorwaldsson hanno ricordato al mondo che quando si parla di interesse nazionale non esiste nessun governo amico, la vicenda della miniera di ferro di Kallak è il segnale che la transizione ecologica ha un prezzo. Un prezzo ecologico, chiaramente. Quantificabile, ad esempio, nel 40% di tutto il litio estratto nel mondo: è la quota che la Cina si accaparra ogni anno per le sue batterie elettriche, settore in cui è leader globale, dominando il processo di trasformazione e lasciando a secco tutti gli altri che producono smartphone o magneti. Con la conseguenza che le quotazioni del litio vanno alle stelle. E non solo quelle.

«La calce entra nella vita di tutti i giorni – spiega Luca Negri, direttore generale di Unicalce, che possiede undici cave in Italia e fattura circa 190 milioni di euro – in quanto viene utilizzata in siderurgia, per depurare le acque e i fumi, nelle vetrerie, per correggere il ph del terreno agricolo… e anche nel ciclo di produzione del litio. Il valore dell’ossido di calcio che viene prodotto “cuocendo” il carbonato in forni come quelli di Ubiale Clanezzo è aumentato in parallelo ai prezzi dell’energia e di tutti gli altri fattori produttivi».

«Presto il litio e le terre rare diventeranno più importanti del petrolio e del gas» ha ammesso la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen presentando il programma di estrazione dei metalli critici, necessari a produrre le tecnologie della transizione ecologica. Secondo Corrado Baccani (Assorisorse), il percorso per uscire dalla dipendenza è strettissimo. «Il riciclo – dice – non è la soluzione a breve termine perché i mercati crescono in modo esponenziale e le quantità recuperabili rappresentano una scarsa percentuale del fabbisogno». Insomma, l’economia circolare può attendere. Si torna a scavare. Anche in Italia. In posti impensabili. Il litio, ad esempio, alloggia in grandi quantità nel sottosuolo di Roma. Tuttora, esistono dei giacimenti interessanti sotto gli Appennini tra il Lazio e la Toscana; le concentrazioni sono elevate e la materia prima si trova già disciolta in acque geotermiche, il che rende più ecologica l’estrazione.

Quello minerario è un mondo complesso. Ciò che distingue miniere e cave non è la tecnica estrattiva ma il loro contenuto: lo Stato autorizza lo sfruttamento delle miniere di minerali considerati strategici e quello delle cave da cui si ricavano tutti gli altri. In Italia da dati Istat ci sono 3.335 cave e 94 miniere autorizzate, ma in attività ci sono 2.081 cave e 76 miniere. Secondo l’Ispra ci sono 3mila siti che potrebbero dare luogo all’attività mineraria: titanio in Liguria, blenda e galena nella Bergamasca, antimonite nella provincia di Grosseto, cobalto in Piemonte, ecc. E calce purissima nelle Orobie. La Cava Costiolo di Unicalce è la più grande cava di calcare d’Europa coltivata per sottolivelli ed è una delle più grandi operazioni di estrazione di questa sostanza in sotterraneo al mondo. Un paradigma della sfida alla sostenibilità: «Siamo un’industria energivora e, per ragioni chimiche, il processo di decarbonatazione è intrinsecamente una delle maggiori fonti di emissione di anidride carbonica – spiega il direttore dello stabilimento Mauro Redaelli – e proprio per questo l’impegno nell’ottimizzazione degli elementi di sostenibilità, che va dal risparmio energetico alla bonifica delle acque usate per il lavaggio del calcare, è quotidiano».

Della vecchia cava a cielo aperto restano gradoni alti decine di metri, che si fatica a mimetizzare con la vegetazione alpina. Una volta, questa era terra di polvere e fatica, ma oggi i minatori manovrano immense benne nel ventre della montagna, guidando caterpillar climatizzati ad alta automazione. Gli impianti di frantumazione primari e secondari, di vagliatura e di lavaggio del calcare sono in sotterraneo, come i nastri trasportatori che trasportano fino ai forni la roccia abbattuta con l’esplosivo e prelevata alla base di 9 camere alte 110 metri, larghe 30 e lunghe 150, ciascuna con una capacità di 500mila metri cubi. La coltivazione di un giacimento come questo, che produce alcune centinaia di migliaia di tonnellate di calcare all’anno, comporta investimenti importanti. Qui si è iniziato a progettare nel 1987 e la prima estrazione è avvenuta nel 2002. Quando si termina, resta il buio immenso. Se uno prima lancia uno sguardo ai gradoni della vecchia cava, si infila nelle gallerie di Costiolo – «Or discendiam qua giù nel cieco mondo» (Inferno, canto IV) – e poi si affaccia su questo antro buio e immobile, animato solo dal brontolio della dinamite, ha chiarissima la sensazione che descrisse Dante: «Oscura e profonda era e nebulosa, tanto che, per ficcar lo viso a fondo, io non vi discernea alcuna cosa». In realtà non vi è nulla di scenografico: si tratta di una tecnica di sfruttamento minerario basata su camere e diaframmi (“sublevel stoping mining method”) che punta alla sostenibilità economica dell’operazione. «Quella ambientale – precisa Negri – è garantita dal fatto che operiamo in sotterraneo ed ogni emissione ed attività è monitorata e certificata. Certo, emettiamo anidride carbonica per la reazione chimico-fisica che serve a trasformare il carbonato in ossido, ma non vi è alternativa se vogliamo disporre della calce, materia prima essenziale – ad esempio – per la produzione di acciaio. Non vi è alternativa fino a che non saranno implementate soluzioni per la cattura dell’anidride carbonica, mediante ingenti investimenti in tecnologie innovative».

Oggi ci sono pochissime imprese italiane come Unicalce, disposte a investire anni nell’inseguimento di una concessione, non abbiamo più i distretti minerari e abbiamo chiuso i corsi universitari di Ingegneria Mineraria. Aggiungiamoci pure che si è deciso di creare nella maggioranza dei siti minerari dismessi dei parchi e dei musei: in pratica, il nostro Paese ha già consegnato alla Storia quella che oggi è la nuova frontiera dell’economia. Così, dobbiamo aprire le porte a chi bussa, e sono soprattutto australiani, attratti dalle nostre riserve di litio e cobalto, distribuite tra il Lazio e il Piemonte. Miniere già note, magari chiuse in passato, ma tornate remunerative. Con tutti i rischi del caso. Anche se a nessuno verrà mai in mente di spostare Roma come hanno fatto con Kiruna, una cittadina lappone “spostata” di qualche chilometro per proseguire gli scavi, i barbaricini sono preoccupati per cosa resterà dopo lo sfruttamento della miniera di Giarrucu, appetita per via della magnetite. Concessione da 65 milioni di euro. Stesso discorso per il Piemonte, dove si trova la più grossa miniera di cobalto d’Europa, e per la Bergamasca. Oltre alla calce, sotto i nostri piedi si troverebbe tanto zinco e piombo. Ma tanto…

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: