mercoledì 17 novembre 2021
La riforma del Terzo Settore e in particolare l’articolo 55 hanno aperto nuovi spazi nelle modalità di collaborazione con la pubblica amministrazione e di progettazione dei servizi
Carlo Borgaza, presidente Euricse

Carlo Borgaza, presidente Euricse

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In questo mese di novembre, la legge sulla cooperazione sociale – la 381 del 1991 – che, insieme con la 266 sul volontariato organizzato ha contribuito a disegnare il Terzo Settore italiano così come oggi lo conosciamo, compie trent’anni. Una buona occasione per tentare una valutazione del 'valore aggiunto' apportato da questa particolare forma di cooperazione e per far luce su alcune interpretazioni tanto diffuse quanto discutibili. Mentre nessuno mette più in dubbio la rilevanza economica, sociale e occupazionale del fenomeno, vi è non poca confusione sulle ragioni che ne hanno determinato lo sviluppo e, di conseguenza, su quale sia il suo potenziale, sia nei più tradizionali servizi di welfare e di inserimento lavorativo che in nuovi ambiti. A ben vedere questa confusione dipende da diverse cause: dal ricorso a schemi interpretativi validi per altri contesti, in particolare quello anglosassone, che hanno praticato su vasta scala politiche di privatizzazioni o esternalizzazioni di servizi sociali prima pubblici; dalla convinzione smentita dai dati che tutto il settore sia interamente dipendente da risorse pubbliche, dall’idea dura a morire che la realizzazione e la gestione dei servizi di intesse generale siano compito esclusivo dello Stato e che se nascono e si sviluppano iniziative di welfare private è necessariamente a causa di una riduzione delle risorse pubbliche.

Per evitare di dare per scontate queste interpretazioni è utile ripercorre la storia, ricordando soprattutto il contesto storico, politico, culturale in cui volontariato e cooperazione sociale si sono formati e diffusi. Un contesto caratterizzato, da una parte, da un sistema di welfare squilibrato e sostanzialmente privo dei servizi sociali pubblici in grado di dare risposte ai bisogni sia conclamati che emergenti e, dall’altra, da una diffusa volontà di partecipazione e da un’ampia disponibilità al coinvolgimento nella costruzione di una società più aperta e inclusiva. Le due leggi, in particolare quella sulla cooperazione sociale, non hanno creato nulla: hanno semplicemente riconosciuto e regolamentato due fenomeni ideati e sviluppati dal basso, da gruppi di cittadini decisi ad affrontare i problemi sociali trascurati dal sistema di welfare. Se poi nel corso degli anni ’90 le amministrazioni locali hanno iniziato a sostenere finanzia- riamente queste realtà è perché si sono rese conto che i servizi offerti erano ormai necessari a garantire la tenuta delle rispettive comunità. La cooperazione sociale, quindi, non solo non ha rappresentato il beneficiario di inesistenti – e impossibili visto che non c’era una offerta consolidata di servizi pubblici – politiche di privatizzazione, ma ha attirato risorse pubbliche sui bisogni da essa serviti. Se oggi una parte della cooperazione sociale è o sembra essere dipendente dalla pubblica amministrazione è a seguito delle dissennate modalità competitive con cui a partire dagli anni 2000 sono stati gestiti i rapporti contrattuali. Solo se si considera tutta la storia e non solo quella degli ultimi anni si possono quindi apprezzare le innovazioni e il 'valore aggiunto' della cooperazione sociale e della legge che l’ha riconosciuta, innovazioni che si sono affermate anche fuori dai confini italiani.

La cooperazione sociale ha inoltre contribuito significativamente a modificare il sistema di welfare italiano spingendolo verso il potenziamento dell’offerta di servizi, creando così anche posti di lavoro aggiuntivi, spesso sottratti all’economia famigliare o informale, e a vantaggio soprattutto della manodopera femminile. La cooperazione sociale – e non la società benefit – è la prima e più diffusa forma di impresa che, per legge e statuto, opera nell’interesse esclusivo non solo dei suoi proprietari, ma della comunità e in particolare dei soggetti più deboli. Non da ultimo, permettendo la presenza di soci volontari, e non ponendo veti alla assunzione del ruolo di socio a qualsiasi portatore di interesse, la 381 ha modificato la governance cooperativa in senso multi-partecipativo. Infine il riconoscimento della cooperazione sociale ha aperto la strada a quello dell’impresa sociale e successivamente alla rivalutazione dell’economia sociale a livello europeo, e ha contribuito a partire dal lavoro del network EMES a dar vita ad un filone di teorica ed empirica, pluralista nelle discipline e metodologie, intorno ai concetti di impresa sociale. Rileggere la storia e tornare alle origini del fenomeno, serve anche per guardare al futuro. La riforma del Terzo Settore e al suo interno l’art. 55, aprono nuovi spazi nelle modalità di collaborazione con la pubblica amministrazione attraverso la co-programmazione e la co-progettazione. Inoltre essa consente di ampliare gli ambiti di attività, anche nella forma della 'cooperativa impresa sociale' applicando ad essi quelle formule imprenditoriali integrate con la comunità, capaci di individuare i nuovi bisogni del territorio e di convogliare le energie disponibili, che la cooperazione sociale proponeva e realizzava ben oltre trent’anni fa.


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