mercoledì 4 maggio 2022
La cementificazione è una delle principali cause della perdita di habitat per le piante pollinifere. Le province di Firenze e Pisa le più danneggiate
Le api uccise dal cemento. Ma in Toscana c'è chi si ribella
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Le arnie si trovano a venti passi dal cantiere. Altri venti e arrivi alle vigne al Poggio al Pino. Filari biologici e biodinamici che crescono in simbiosi con le api. Tralci di Lorigine e Templare, due cru da medaglia d’oro all’America Wines Awards. Siamo nel territorio di Cerreto Guidi, nel Valdarno. Terra di industrie, (una volta) fiorenti, e di agricoltura biologica, (oggi) remunerativa. Stefano Parisi è un enologo ed apicoltore che alleva 50 arnie in mezzo ai vigneti di famiglia e sta lottando per fermare il cantiere del vicino contoterzista: un blocco di cemento armato e ferro che diventerà un garage per un parco di trattori e ruspe. Le sue api, che solitamente sono il termometro della salubrità di un ecosistema, saranno destinate a soccombere. E senza di loro, addio vendemmia di qualità della Poggio al Pino, piccola azienda modello della viticoltura del Chianti, fondata da Teodoro Parisi, maestro di vigna, agli inizi dello scorso secolo. Vi si producono 20.000 bottiglie Igt, oltre a 500 kg di miele e propoli, antibiotico per noi e fungistatico naturale, utilizzato per combattere le malattie della vite. La presenza delle api in questi vigneti coltivati su di un prato polifita naturale da decenni, è la prova della salubrità dell’ambiente. L’ape non fa bene sono all’agricoltura ma anche al turismo, due attività che da queste parti sono inscindibili. La moria di questi insetti provoca quindi un duplice danno. Dopo aver vinto (ai punti) la battaglia contro i neonicotinoidi, l’Apis mellifera europea, che poi è l’ape da miele, oggi deve difendersi dalla cementificazione del territorio, che avanza anche dove, come in Toscana, lavorare la terra nel rispetto della natura rappresenta un business. Lo dimostrano investimenti milionari come Villa Petriolo. Altra storia, stessa battaglia per un’agricoltura rispettosa della natura. Sempre nel segno del bio. In questo caso, parliamo della dimora tardo cinquecentesca degli Alessandri, vicini di casa dei Medici. Di quel periodo non è rimasta solo la passione per la caccia con il falcone: Daniele Nannetti, figlio di ristoratori con il pallino del biologico, si è inventato un resort inclusivo, che attrae sia la clientela locale che internazionale.

La tenuta si estende su 168 ettari e costa ogni anno un milione e mezzo di euro. Eppure ci si guadagna. Con il grano antico che ha prezzi stellari, il vino rigorosamente bio, il maiale di cinta senese allevato allo stato semi- brado e ricercatissimo in questi tempi di mercati inquieti e peste suina. Anche questo ecosistema agricolo, fatto di boschi e di vigneti, vive grazie agli impollinatori. Trenta arnie posizionate strategicamente tra campi e laghetti per garantire una adeguata impollinazione al prato polifita presente nei vigneti di Sangiovese del Golpaja e leguminose, con le quali ruotano i frumenti di una volta, secondo i dettami dell’agricoltura rigenerativa. Un’alleanza che l’Europa riconosce e tutela. La nuova Pac sostiene con specifici aiuti la coltivazione di piante 'di interesse mel-lifero', senza l’utilizzo di diserbanti. Allevare impollinatori non è però una passeggiata, ammettono gli agricoltori bio. Malgrado l’impegno degli apicoltori, le perdite annue negli alveari posso-no superare 60% del totale. Sotto la pressione della chimica e del cemento, dal 1990 al 2015, il 25% di impollinatori si sono estinti: ci siamo giocati un quarto degli 'operai' che provvedono quotidianamente all’impollinazione del 70% di tutte le specie vegetali viventi sul pianeta, visto che delle 100 specie di colture che forniscono il 90% del fabbisogno alimentare mondiale, 70 sono impollinate proprio dalle api. Con un contributo all’econo-mia italiana che è stato monetizzato in tre miliardi di euro. Più in piccolo, senza le api i 50 lavoratori di Villa Petriolo, tutti locali ad eccezione di tre richiedenti asilo assunti grazie a un progetto realizzato con la Misericordia di Cerreto Guidi, resterebbero disoccupati. La tenuta modello, poi, sarebbe un immenso bosco lasciato a sé stesso, mentre oggi qui si producono 1300 ettolitri di vino pregiato e presto entreranno in produzione tremila olivi. Per non dire della Spa agricola.

Il metodo di coltivazione certificato in quest’area - e applicato con tecnologie che portano a ridurre drasticamente la dispersione di metalli pesanti nel suolo - non è una scelta solo culturale. Una bottiglia di vino biologico viene pagata il 20% in più di quella convenzionale e il maiale di cinta dop e bio ha una remunerazione talmente alta che rappresenta la voce di bilancio più importante dell’azienda fiorentina. Anche la terra costa assai, da queste parti. Un ettaro di seminativo, il più economico, si aggira intorno ai trentamila euro. Perciò non si comprende la ragione per cui in Toscana spuntino ancora cantieri come quello adiacente alla Poggio Al Pino, proprio in mezzo alle vigne e ai girasoli. In base all’ultimo rapporto del Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente, in Toscana, al 2019, risulta consumato il 6,2% del suolo, pari a 141.442 ettari, con un incremento di 230 ettari rispetto al 2018, malgrado questa sia stata la prima Regione italiana a tradurre in pratica il concetto di 'consumo zero di nuovo suolo' attraverso la legge regionale 65/2014 sul governo del territorio e il PIT con valore di Piano Paesaggistico. Un record negativo spetta proprio alla provincia di Firenze con 25.756 ettari consumati nel 2019. La Toscana continua a consumare anche suolo vergine, naturale, e persino quello vincolato, persino sulla costa; l’area Firenze-Pisa, lungo l’Arno, è tra quelle dove il consumo di suolo è maggiore. La cementificazione, com’è noto, è una delle principali cause della perdita di habitat per sottrazione di suolo su cui vivono piante pollinifere e la sottrazione di suolo per la cementificazione è proporzionalmente raddoppiata rispetto alla crescita demografica negli ultimi 30 anni, diventando una delle cause principali della moria di api, insieme agli agrofarmaci e al cambiamento climatico che provoca la diffusione dei parassiti di questi insetti, come l’acaro Varroa destructor o il fungo Nosema ceranae. Battaglie come quella di Stefano Parisi o progetti come Villa Petriolo vanno, ci spiegano i protagonisti, nella direzione opposta: ripristino degli habitat naturali, eliminazione di agrofarmaci altamente tossici per gli insetti pronubi e riprogettazione del comparto agricolo.

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