mercoledì 26 aprile 2023
Anche con l’aiuto italiano, il governo ha costruito villaggi con scuole e servizi su terreni strappati alla sabbia
Tunisia, lo sviluppo non è un miraggio: oasi contro la crisi idrica

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L’essenziale è invisibile agli occhi, scriveva nel Piccolo principe Antoine de Saint-Exupéry. Esattamente come l’acqua fossile del Sahara tanto caro allo scrittore, oro blu che sgorga a 80 gradi dalle pompe artesiane dalle sabbie del deserto tunisino, raffreddato in torri a spirali per creare oasi dal nulla.

L’acqua che da milioni di anni scorre sottoterra a chilometri di profondità, ha fatto crescere in 30 anni 2.500 ettari di oasi a Rjim Maatoug, nel governatorato di Kebili, nel sud-ovest desertico della Tunisia, al confine tra Libia e Algeria. Siamo a quasi due ore dalla grande oasi di Tozeur, dove la bella stazione in mattoni rossi dei treni cantati da Franco Battiato è malinconicamente chiusa da anni per un guasto mai riparato alla linea ferroviaria. Quindi le oasi vecchie e nuove si raggiungono su strade asfaltate tra le sabbie soprattutto con i fondi del Qatar, che aveva puntato sulla Tunisia e sul Nordafrica all’indomani della primavera araba del 2011.

Grazie alle palme da dattero piantate in 30 anni vengono prodotte 17 milioni di tonnellate che coprono il 5% della produzione nazionale e generano valore per circa 16 milioni di euro. I terreni vengono suddivisi in parcelle da un ettaro e distribuiti ai capifamiglia. Dopo sette anni la pianta inizia a produrre i datteri, il cibo del deserto. La cooperazione allo sviluppo italiana ha finanziato con circa 20 milioni di euro. Il governo di Tunisi ha costruito, grazie all’acqua di falde fossili, sei villaggi con scuole e servizi sociali, sanitari e amministrativi in una delle zone con il maggior tasso di disoccupazione della Tunisia, oggi provata da una delle crisi economiche più gravi dei suoi 67 anni di vita. Oggi 1.300 famiglie di nomadi sono diventate sedentarie e vivono di agricoltura in un angolo di deserto fiorito.

Le nuove oasi sono attraversate da una fascia biologica che consente la vita umana e l’allevamento di animali. Quella rigogliosa di Rjim Maatoug è il fiore all’occhiello dell’Agenzia della cooperazione italiana di Tunisi, presente nella capitale maghrebina fin dalla creazione alla fine degli anni ‘80. Diretta dal 2021 da Andrea Senatori, una lunga esperienza di cooperazione alle spalle, l’agenzia italiana si è storicamente impegnata per il supporto allo sviluppo rurale e nella lotta alla povertà. Senatori descrive così la cornice in cui si inserisce il progetto delle oasi: «Per la vicinanza all’Italia la Tunisia è strategica. La cooperazione allo sviluppo si è concentrata sul sostegno al settore privato, sul rafforzamento degli investimenti pubblici, nonché sul supporto allo sviluppo rurale, in particolare nelle regioni meridionali. Gli orientamenti strategici della Cooperazione italiana in Tunisia sono stati recentemente sanciti dal Memorandum 2021-2023 con un importo totale di 200 milioni di euro, di cui 150 a credito e 50 a dono. Tra i beneficiari, un’attenzione particolare è riservata a giovani e donne provenienti da regioni a forte potenziale migratorio. La nuova programmazione agisce sull'economia verde. Tra le priorità, il sostegno al rilancio economico e sostenibile attraverso la creazione d’impiego e l’innovazione e l’appoggio al consolidamento del processo di democratizzazione».

I programmi e i progetti finanziati dalla Cooperazione italiana e in corso di realizzazione sono 36 per un valore complessivo di circa 596 milioni. L'Unione Europea ha affidato all’Aics in cooperazione delegata 44 milioni per sostenere la creazione e lo sviluppo di sistemi di produzione sostenibile nel settore agricolo e della pesca. A dicembre l’Ue ne ha aggiunti altri 24,8 per realizzare attività a sostegno del settore cerealicolo fortemente indebolito dalla crisi internazionale scatena dal conflitto tra Russia e Ucraina. Rilevante, infine, il sostegno allo sviluppo del settore privato con linee di credito per le Pmi che, con risorse pari a 350 milioni di euro e 80 milioni di dollari, hanno contribuito negli ultimi 30 anni al finanziamento di 800 imprese e alla creazione di circa 14.000 posti di lavoro.

Nel deserto la cooperazione italiana ha scelto di supportare popolazioni prive di sbocchi per aiutarle a raggiungere un reddito dignitoso e ha finanziato le oasi prima con l’Ue e poi con il ministero della Difesa tunisino, portando i costosi impianti di pompe artesiane a pescare a chilometri di profondità l’acqua individuata negli anni ‘80 in una riserva gigantesca che si estende tra Tunisia, Libia e Algeria.

«Ci sono due tipi di oasi – spiega Remo Zulli, assistente tecnico rurale Aics a Tozeur –, quelle tradizionali vicine alla principali città come Nefta, Tozeur e Tamerza. Sono nate grazie al passaggio di antiche carovane vicino alle sorgenti naturali. In epoca moderna l’oasi produce in modo intensivo i datteri che nel sud della Tunisia sono diventati una filiera insieme all’allevamento. Le oasi sono divise in tre strati: quello alto con i palmeti, l’intermedio con altre piante da frutto e a livello del terreno con il foraggio per le bestie, le piante medicinali e gli orti».

Zulli è anche un testimone dei mutamenti climatici. «La desertificazione sta avanzando notevolmente cambiando il paesaggio di continuo da un anno all’altro – sottolinea –. Le barkhane (dune a forma appuntita, ndr) si spostano se non trovano sistemi che le frenano». La lotta alla desertificazione viene completata con progetti che rendono più efficiente l’impiego dell’acqua fossile, che un giorno si esaurirà.

A Rjim Maatoug come nelle oasi di Hazoua e Tamerza, nel Governatorato di Tozeur (dove la cooperazione italiana ha investito 5,1 milioni di euro a dono per migliorare la vita della popolazione locale) vengono infatti sviluppate tecniche innovative di irrigazione che sostituiscono quelle tradizionali ad allagamento con quelle nuovo a basso utilizzo d’acqua come la dispersione a buffer che impiega la metà dell’oro blu fino all’irrigazione a goccia. Tecniche usate in altri deserti e di recente introdotte anche nell’Italia inaridita.
Ma come si ferma il deserto? E come si proteggono le oasi artificiali? Da anni a Rjim Maatoug i preziosi palmeti sono circondati da una barriera creata con le foglie di palma intrecciate per arrestare la desertificazione, un sistema sperimentale ingegnoso, naturale e antico.
«Vengono piantate – spiega Mohammed Dabbebi, agronomo e ufficiale dell’armée tunisina ¬– palizzate di foglie di palma. Attività strategica, perché metà del territorio tunisino è minacciata dalla desertificazione e il Paese è in prima linea sul fronte dei mutamenti del clima. L’autunno del 2022 è stato il più caldo dal 1965. I corridoi di venti dominanti da Gades fino all’Algeria portano sabbie il cui carico non oltrepassa i 40 centimetri all’anno. Si scavano buche di 40 centimetri in cui si infilano foglie di palma alte 120 centimetri che quindi affiorano per 80 centimetri. Se ne piantano 25 al metro, creando barriere fitte sulle quali la sabbia si accumula. Dopo due anni, si ricopre e si ricomincia con un altro strato fino al punto di equilibrio, quando i venti non oltrepassano più la barriera».
Tra un anno il progetto terminerà mentre l’Aics erogherà fino al 2024 un altro milione con il microcredito per lo sviluppo di piccole imprese. L’arresto del deserto stimola infatti la nascita di un’economia legata alla filiera del dattero. La sindaca di Rjim Marough, Alia Marewi, esprime riconoscenza all’Italia. «Presiedo una comunità creata grazie alla cooperazione italiana che spero continui ad assisterci. Questa zona si sta sviluppando con l’integrazione dei giovani nel circuito economico che riescono a creare progetti agricoli. Ci servono investimenti e il microcredito può creare una dinamica economica».
Aisha ne è un esempio. Ci guida nel verde del suo palmeto, tra gli ortaggi coltivati alla base delle piante e i melograni. «Sono rimasta vedova, ho continuato a lavorare nella parcella assegnata a mio marito e a produrre datteri. All’inizio facevo anche la raccolta dei frutti sulle piante da sola, oggi ho bisogno di lavoranti. Con la mia attività i miei figli hanno studiato al liceo e all’università. Ora mi aiutano a far crescere l’impresa».
Ora Tunisi vuole estendere il progetto delle oasi. Acqua fossile e luce del sole, che con parchi fotovoltaici porteranno nei prossimi anni energia in Italia e nell’Unione Europea attraverso il gigantesco cavo sottomarino che collegherà la Tunisia alla Sicilia, sono il tesoro naturale del deserto. Dove, scriveva sempre Saint-Exupéry, «ti siedi su una duna di sabbia, non vedi niente, non senti niente. E tuttavia qualcosa brilla in silenzio».

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