mercoledì 12 luglio 2017
Il sociologo autore di "Modelli di Giornalismo" invita a non drammatizzare la situazione della stampa in Italia: è in corso una trasformazione che ha anche dei vantaggi
Paolo Mancini insegna Sociologia delle Comunicazioni all'Università di Perugia

Paolo Mancini insegna Sociologia delle Comunicazioni all'Università di Perugia

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Paolo Mancini invita a non drammatizzare. Professore ordinario di Sociologia delle Comunicazioni all’Università di Perugia e vincitore, nel 2005, del premio Goldsmith di Harvard per il libro Modelli di giornalismo scritto insieme a Daniel C. Hallin, Mancini è uno dei maggiori studiosi italiani dei rapporti tra il sistema della comunicazione di massa e il sistema della politica.

Il presidente dell’Agcom ha lanciato un allarme: perché un sistema democratico funzioni occorre un sistema dell’informazione plurale e di qualità ma questi elementi sono minacciati dall’impoverimento del settore. Quanto è grave la situazione?

Io non sarei eccessivamente pessimista. La crisi di diffusione è un problema legato a un mezzo preciso, cioè alla stampa scritta. L’editoria giornalistica è in crisi ma dall’altra su Internet e sui nuovi media si sta sviluppando un dibattito che rimpiazza ampiamente il dibattito tradizionale. Certo, lo fa con i suoi pro e i suoi contro. Il concetto da prendere in considerazione è quello di un sistema ibrido, in cui i media di tipo tradizionale coesistono con quelli di tipo nuovo. Io non sono convinto che il livello di conoscenza delle informazioni sia minore o peggiore oggi di ieri perché scompaiono i media stampati.

Quali sono i pro e quali i contro?

Il vantaggio è che il dibattito è più animato e meno imbrigliato. I problemi sono quelli evidenti: la verificabilità delle notizie si indebolisce e si diffondono più facilmente notizie false. Anche la grande quantità di notizie a disposizione è per certi versi un problema: il lettore non sa destreggiarsi nel mare di informazioni e rischia di consumarle con una velocità che non gli consente di verificarle e gli fa perdere certezze su ciò che accade, perché i fatti nuovi arrivano a un ritmo troppo rapido. La quantità dell’informazione rende necessario qualcuno che faccia selezione, un’attività che alcuni provider stanno facendo, come Google, per esempio. Ma con quale professionalità? Come diceva il presidente Cardani, la velocità del mutamento è tale che non gli si riesce a stare dietro.

E che ruolo hanno i giornalisti in questa condizione ibrida?

La professionalità dei giornalisti è molto più confusa di un tempo, perché il cambiamento dei mezzi di comunicazione cambia anche il loro mestiere. Non possono rimanere ancorati a una vecchia figura professionale, ne sta nascendo una nuova dai confini molto più confusi.

Non è la debolezza del sistema dell’informazione a fare spazio all’avanzata dei movimenti cosiddetti “populisti”?

Credo sia sbagliato etichettare come “populisti” tutti questi nuovi movimenti. Non è nemmeno tanto una questione di debolezza dell’informazione, ma di trasformazione: le nuove tecnologie consentono al mondo della politica di parlare direttamente ai cittadini senza le tradizionali intermediazioni della stampa e degli apparati di partito. In alcuni casi è un miglioramento, perché c’è maggiore diffusione delle informazioni, in altri un peggioramento, perché porta a una banalizzazione. Ma non esaltiamo oltre misura le vecchie tradizioni di partito, c’era molta manipolazione che oggi il rapporto diretto non consente.

In “Modelli di giornalismo” lei indica lo stretto legame con la politica tra le caratteristiche distintive della stampa del modello “mediterraneo”. Quanto pesa questo difetto nello scollamento tra i giornali italiani e i loro pubblico? Pesa molto. La situazione sta anche peggiorando, perché nella stampa italiana rimane la partigianeria di un tempo e oggi si mischia con il cedimento alle logiche di mercato: per aumentare le vendite si accentua la ricerca dello scoop, dell’eccentrico, di quegli aspetti più facilmente consumabili. E questo è certamente deleterio.

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