venerdì 15 marzo 2019
Una ricerca evidenzia come le aziende che vengono percepite dai consumatori come più sensibili alle diversità di vario tipo registrino un aumento dei ricavi del 20%
L'inclusione può diventare il «motore» della crescita
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Investire sull’inclusione, sia a livello di immagine che di politiche aziendali, è una scelta che paga. È in quest’ottica che va letto il «Dirvesity Brand index» presentato ieri a Milano: un progetto di ricerca giunto alla seconda edizione condotto da Diversity associazione fondata da Francesca Vecchioni e impegnata nel difendere la cultura dell’inclusione, e da Focus Managment, società di consulenza strategica. Questo speciale indice si basa due fattori: la percezione dei consumatori sul livello di inclusione delle aziende analizzate e l’impegno reale che esse mettono nel combattere ogni forma di discriminazione che sia legata al genere, all’età, all’orientamento sessuale, al credo religioso, alla disabilità all’etnia o allo status socio- economico. I risultati di questa seconda edizione della ricerca, che ha raccolto le valutazioni di 1035 consumatori su 453 brand ma anche il parere di un comitato scientifico composto da docenti universitari italiani e stranieri, va nell’ottica di una sempre maggiore attenzione alla diversità: i brand che investono di più in questa direzione infatti hanno visto una crescita dei ricavi fino al 20% in un anno rispetto a quelli meno inclusivi.

«Le aziende che non sanno parlare, pensare e agire includendo restano fuori da essa e di conseguenza dal mercato. La società è un organismo, ed esattamente come in biologia, si evolve grazie alla diversità che genera innovazione e progresso» ha commentato Francesca Vecchioni. Oggi più che mai, l’impegno in questa direzione ha non solo un forte impatto sulla reputazione delle aziende, ma è tra i fattori determinanti in grado di generare fiducia nei brand e alimentare un passaparola positivo, indirizzando le scelte d’acquisto. Ciò che emerge dalla ricerca è che l’impegno sulla diversità non passa inosservato e genera riflessi molto positivi per le aziende. Il 51% dei consumatori sceglie con convinzione brand inclusivi, che generano un Net promoter score (indicatore del passaparola) più alto rispetto a quelli non inclusivi. Tre consumatori su quattro sono sensibili al messaggio inclusivo dei brand. Gli italiani però continuano ad essere animati da buone intenzioni ma ma hanno spesso una relazione distaccata con le singole forme di diversità. In questo senso invece le aziende stanno facendo dei passi in avanti.

«L’inclusione non è più considerata come un tabù, ma è un vero e proprio asset di crescita strategico per le aziende sia dal punto di vista etico che economico» ha sottolineato Emanuele Acconciamessa di Focus Management. Il dato fondamentale emerso è che sono soprattutto le aziende di servizi (in particolare assicurazioni e banche) a guadagnare punti sul fronte dell’inclusione per merito soprattutto di politiche aziendali interne, mentre quelle della moda, che trasmettono un’immagine stereotipata della bellezza, sono considerate in maniera meno positiva. Tra i venti brand che sono entrati in questa speciale classifica, che ha uno scopo di sensibilizzazione e di analisi delle tendenze dei consumatori, sono di tutti i settori: dall’alimentare come Barilla, Coca-Cola, Nestlé, Garofalo, Vitasnella, Eataly, Carrefour, al mondo bancario con American Express Bnl-Paribas, Ing a big delle comunicazioni come Rai, Sky e Google e i gestori telefonici Vodafone e Tim. I dati sono stati presentati ieri presso la Fondazione Feltrinelli ad una platea di circa 200 esponenti dell’imprenditoria italiana con lo scopo di spingere le aziende ad introdurre delle buone pratiche.

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