sabato 21 luglio 2018
Il 98% delle aziende italiane ha meno di 20 addetti, dà lavoro al 56,4% degli occupati e produce il 40% del valore aggiunto nazionale annuo
Imprese piccole, ma contributi da giganti
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Il 98% circa del totale delle imprese presenti in Italia ha meno di 20 addetti. Una platea costituita da oltre cinque milioni di piccolissimi e micro imprenditori e da tanti artigiani, negozianti e liberi professionisti. Nonostante la dimensione aziendale di queste realtà sia molto contenuta, il contributo fiscale ed economico reso al Paese è rilevantissimo. A dirlo è l'Ufficio studi della Cgia.

In materia di imposte e tasse, per esempio, nel 2017 i lavoratori autonomi e le piccolissime imprese (per intenderci solo quelle sottoposte agli studi di settore), hanno versato al fisco 43,9 miliardi di euro (pari al 53% del totale delle principali imposte versate dal sistema economico). Tutte le altre, prevalentemente medie e grandi imprese, hanno invece corrisposto 'solo' 39,6 miliardi (il 47% del totale). Anche nel campo economico ed occupazionale i risultati sono sorprendenti. Al netto dei dipendenti del pubblico impiego, le aziende con meno di 20 addetti danno lavoro alla maggioranza degli italiani, vale a dire al 56,4% degli occupati. Inoltre, queste micro realtà producono il 40% del valore aggiunto nazionale annuo, score non riscontrabile in nessun altro grande Paese dell'Unione Europea.

Alla luce di queste specificità, la Cgia chiede con forza che si torni a guardare con maggiore attenzione al mondo delle imprese, in particolar modo alle piccole e alle micro, visto che, ad esempio, l'ammontare del debito commerciale della nostra Pubblica amministrazione (Pa) nei confronti dei fornitori sfiora i 60 miliardi di euro e circa la metà di questo importo è riconducibile ai mancati pagamenti. Afferma il segretario della Cgia, Renato Mason: «La nostra Pa non solo paga con un ritardo inaudito che ci è costato un deferimento alla Corte di Giustizia europea, ma quando lo fa non versa più l'Iva al proprio fornitore. Pertanto, le imprese che lavorano per il settore pubblico, oltre a subire tempi di pagamento spesso irragionevoli, scontano anche il mancato incasso dell'imposta sul valore aggiunto che, pur rappresentando una partita di giro, consentiva fino a qualche tempo fa alle imprese di avere maggiore liquidità per fronteggiare le spese correnti. Questa situazione, associandosi alla contrazione degli impieghi bancari nei confronti delle imprese in atto in questi ultimi anni, ha peggiorato la tenuta finanziaria di moltissime piccole aziende».

Alla politica, inoltre, la Cgia chiede di abbassare quanto prima la tassazione sulle famiglie e sulle piccole e micro imprese in modo da rilanciare i consumi interni e l'occupazione. Gli artigiani mestrini, infine, chiedono di rilanciare anche gli investimenti, soprattutto quelli pubblici, che sono una componente del Pil poco rilevante in termini assoluti, ma fondamentale per la creazione di ricchezza. Non migliorando la qualità e la quantità delle nostre infrastrutture materiali, immateriali e dei servizi pubblici il nostro paese è destinato al declino. Senza investimenti, infatti, non si creano posti di lavoro stabili e duraturi in grado di migliorare la produttività del sistema e, conseguentemente, di far crescere il livello medio delle retribuzioni.

Il crollo avvenuto in questi ultimi anni, concludono dalla Cgia, è stato causato sicuramente dagli effetti negativi della crisi, ma anche dai vincoli sull'indebitamento netto che ci sono stati imposti da Bruxelles. Tali vincoli potrebbero essere superati, se, come prevedono i trattati europei, riuscissimo a ricorrere alla cosiddetta golden rule. Ovvero, alla possibilità che gli investimenti pubblici in conto capitale siano scorporati dal computo del deficit ai fini del rispetto del patto di stabilità fra gli Stati membri.

«Abbiamo un'economia che si regge su imprese bonsai - afferma il coordinatore dell'Ufficio studi della Cgia, Paolo Zabeo - ma con performance fiscali ed economiche da giganti. Purtroppo, a differenza di un tempo, la competitività del Paese risente soprattutto dell'assenza delle grandi imprese. Da alcuni decenni queste ultime sono scomparse, non certo per l'eccessiva numerosità delle piccole realtà produttive, ma a causa dell'incapacità dei grandi player, prevalentemente di natura pubblica, di reggere la sfida lanciata dalla globalizzazione».

Sino agli inizi degli anni '80, infatti, l'Italia era tra i leader mondiali nella chimica, nella plastica, nella gomma, nella siderurgia, nell'alluminio, nell'informatica e nella farmaceutica. Grazie al ruolo e al peso di molte grandi imprese pubbliche e private (Montedison, Eni, Montefibre, Pirelli, Italsider, Alumix, Olivetti, Angelini eccetera), l'economia del Paese ruotava attorno a questi comparti. A distanza di quasi 40 anni, invece, abbiamo perso terreno e leadership in quasi tutti questi settori. E ciò è avvenuto non a causa di un destino cinico e baro, ma a seguito di una selezione naturale compiuta dal mercato.



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