Un anno difficile per i neolaureati italiani - Archivio
Giovani, donne, provenienti dal Sud o da famiglie a basso reddito. Sono le categorie su cui gli effetti della pandemia sono stati più evidenti, anche a livello di studi universitari. Se infatti la crisi sanitaria non ha compromesso la formazione degli studenti universitari, ha avuto un effetto diretto sull’occupazione: a un anno dal titolo il tasso di occupazione è pari al 69,2% tra i laureati di primo livello e al 68,1% tra quelli di secondo livello: diminuito di 4,9 punti percentuali per i laureati di primo livello e di 3,6 punti per quelli di secondo livello. A pagare il prezzo più alto sono quindi i giovani neolaureati, e la situazione peggiora se si è donne (gli uomini hanno il 17,8% di probabilità in più di essere occupati a un anno dalla laurea) o del Sud (al Nord +30,8% di probabilità di essere occupati a un anno dal titolo rispetto a quanti risiedono al Sud). Nel 2020, a un anno dal conseguimento del titolo, la forma contrattuale più diffusa è il lavoro non standard, prevalentemente alle dipendenze a tempo determinato. È quanto emerge dal XXIII Rapporto Almalaurea, annuale fotografia sul profilo e la condizione occupazionale dei laureati che ha coinvolto 76 Atenei e 655mila laureati.
Il rapporto ha messo in luce come l’Università abbia retto all’onda d’urto della pandemia (l’ultimo anno ha visto un incremento delle immatricolazioni (+14mila rispetto al 2019/20), ma si ritrova ora a gestire una serie di problemi atavici del sistema, diventati ancora più gravi con il Covid. Tra questi il numero di laureati, il secondo più basso in Europa dopo la Romania, che tuttavia nell’ultimo anno ha incrementato il numero dei suoi laureati di un punto percentuale. «Questo vuol dire che tra qualche anno saremo probabilmente ultimi», commenta Ivano Dionigi, presidente di Almalaurea. Tra gli elementi critici, le migrazioni per ragioni di studio, che sono quasi sempre dal Mezzogiorno al Centro-Nord: il 27,5% dei giovani del Sud decide di conseguire la laurea in Atenei del Centro e del Nord. «Chi si laurea al Nord ha anche il 30% di possibilità in più di trovare lavoro. E quasi il 46% dei laureati del Sud trova lavoro al Nord. ll Sud, ormai, rischia di diventare un guscio vuoto», ha detto ancora Dionigi.
Ma le disuguaglianze riguardano anche le famiglie di provenienza: fra i laureati, infatti, si rileva una sovra-rappresentazione dei giovani provenienti da ambienti familiari favoriti dal punto di vista socio-culturale. I laureati con almeno un genitore in possesso di un titolo universitario sono il 30,7% (nel 2010 erano il 26,5%). «L’ascensore sociale si è bloccato e non da quest’anno– sottolinea il presidente Almalaurea -. Siamo un Paese ad alto tasso ereditario, con punte medievali. Emerge la necessità dell’orientamento e del diritto allo studio, che vuol dire vitto, alloggio, docenti qualificati». Il 20,1% dei laureati, infatti, completa gli studi nello stesso gruppo disciplinare di uno dei genitori (è il 35,5% tra i percorsi a ciclo unico, quelli che portano più spesso alla libera professione).
Per quanto riguarda le prospettive di lavoro, cresce la percentuale di chi sarebbe disposto a trasferirsi all’estero (il 45,8% dei laureati contro il 42% del 2010). Aumentano il lavoro agile e da remoto. In sintesi, secondo Dionigi, la pandemia non ha segnato molto l’Università: «Gli studenti si sono laureati, hanno seguito i corsi; ma ha inciso sulla ricerca di occupazione». Tuttavia, se è vero che la pandemia ha causato una contrazione delle dinamiche di richiesta di laureati da parte delle imprese a partire dal mese di febbraio 2020, da maggio 2020, si inizia a registrare una ripresa delle richieste di cv che si conferma per tutto il 2020 e i primi mesi del 2021. L’Università, però, dovrà fare i conti anche con un altro fattore: la didattica a distanza. Per quattro studenti su cinque, è preferibile quella in presenza, per i rapporti personali con i loro colleghi, per i contatti con i professori e per la maggior comprensione della materia. Ma c’è un 5% che preferisce la Dad.