giovedì 2 giugno 2016
​Scarpetta (nella foto), responsabile Ocse per il Lavoro: urgono riforme per proteggere gli operatori di piattaforme come Uber.
«Aggiornate i lavoratori o cresceranno le diseguaglianze»
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«Bisogna mettere in opera un grande processo di riqualificazione professionale, non solo dei giovani ancora in fase formativa, ma anche di chi è già nel mondo del lavoro ». Per l’economista Stefano Scarpetta, a capo della Divisione Lavoro dell’Ocse, si tratta di un punto chiave per trasformare la svolta digitale in corso in un’opportunità e limitare i rischi di ricadute negative sull’occupazione. Per l’Ocse, occorre regolamentare meglio l’economia digitale. A proposito dell’occupazione, chi deve agire? Se consideriamo fenomeni come la crescita del lavoro su piattaforme come AirBnb e Uber, bisogna riflettere oggi, senza attendere che il fenomeno diventi massiccio, per implementare riforme in grado di apportare ai lavoratori protezione e garanzie. È un terreno molto complesso, perché ad esempio sulle piattaforme si lavora talora da casa. Ogni verifica e controllo è difficile. A livello nazionale, ma anche internazionale, tutti gli attori devono riunirsi attorno a un tavolo, compresi gli imprenditori. Occorre assolutamente evitare che i governi legiferino da soli in un campo tanto complesso. Il punto di partenza riguarda le condizioni minime che dovrebbero essere garantite a tutti i lavoratori, restando compatibili con lo sviluppo dei settori di attività. La transizione digitale attuale presenta rischi particolari per i lavoratori? Ciò che osserviamo è il trasferimento sul lavoratore di rischi che prima erano presi in conto dallo stesso contratto di lavoro. Entriamo in un’economia molto dinamica in cui tutti i lavoratori saranno obbligati a rinnovarsi. Ma gli autonomi, al contempo, hanno l’obbligo aggiuntivo di trovare forme assicurative per proteggersi dal rischio di perdere il posto di lavoro o dal rischio di incidenti ecc. I rischi, così come certe nuove opportunità, si stanno trasferendo sul lavoratore, il quale deve disporre degli strumenti e delle capacità per fronteggiarli. Occorre dunque approdare a un modello di lavoro autonomo che sia al contempo produttivo e protetto. Come si situa l’Italia nel contesto europeo? Ci sono luci e ombre. Da una parte, nelle stime sui posti di lavoro esposti al rischio di automatizzazione, che variano in genere attorno al 9%, la quota italiana è paragonabile a quella tedesca o austriaca, ma più alta rispetto ad esempio all’area scandinava. Al contempo, l’Italia ha una forte tradizione di piccole imprese dinamiche che lavorano in modo integrato, mostrandosi flessibili e adattabili. Ciò implica forti potenzialità per sfruttare al meglio le nuove tecnologie. In ogni caso, anche per l’Italia, un’arma decisiva potrà giungere da un forte coinvolgimento della scuola e dell’università. Ci sono ragioni nuove di temere una 'disoccupazione tecnologica'? Nonostante la grande incertezza attuale, certi studi empirici recenti evidenziano soprattutto la prospettiva di forti cambiamenti nella fisionomia del lavoro e la necessità per i lavoratori di riqualificarsi. Più che la prospettiva di forme nuove di disoccupazione di massa causate dalla tecnologia, il rischio maggiore è quello di una crescente disuguaglianza nel mercato del lavoro. I lavori più relazionali potrebbero trarre profitto dalla svolta tecnologica? Certamente. L’intelligenza sociale, comunicativa e creativa resta generalmente fuori dalla portata di macchine e robot. Sono ambiti in cui la richiesta futura tenderà a crescere. Anche perché non bisogna immaginare l’ammontare totale di lavoro come una torta predefinita e immutabile minacciata dall’automatizzazione. La torta potrebbe espandersi anche grazie alla tecnologia. Ci sono ambiti di lavoro relazionale con grandi potenzialità, compreso il terzo settore, che possono trarre profitto dal versante collaborativo e cooperativo della nuova economia emergente.
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