sabato 3 febbraio 2018
Il brevetto depositato dal colosso del commercio elettronico è un passo avanti verso lavori 'monitorati' che rischiano di mettere i dipendenti al servizio delle macchine. Proprio men
Con il braccialetto il lavoro perde dignità
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Il brevetto della discordia, quello dei braccialetti elettronici di Amazon, ha avuto il merito di aprire una discussione, non più rinviabile nell’era della rivoluzione digitale, sulla difesa dei lavoratori e della loro dignità. Difesa da un rischio duplice: quello di essere controllati in maniera costante dalle macchine e quello, ancora più terribile, di essere trasformati in una macchina. Amazon sta studiando (con un brevetto depositato nel 2016 ma ancora in fase di perfezionamento) un sistema per velocizzare la ricerca dei prodotti stivati nei suoi magazzini e quindi la produttività dei suoi dipendenti. Un braccialetto intelligente, dotato di una tecnologia wireless che vibrando condurrebbe il lavoratore dal prodotto che sta cercando tramite ultrasuoni. Uno strumento di 'lavoro' come altri secondo il colosso dell’e-commerce che ieri è tornato a precisare l’assoluto «rispetto della legge» e ha parlato di «speculazioni fuorvianti». La legge italiana esclude un utilizzo di informazioni ottenute da dispositivi elettronici 'contro' il dipendente ma è un dato di fatto che la tecnologia renda possibile un controllo pressoché totale sui tempi di produzione.

La notizia ha fatto il giro del mondo e ha prodotto una levata di scudi da parte di politici e sindacati. In Italia Amazon ha tre centri di distribuzione, otto depositi di smistamento e oltre 3mila dipendenti ed è accusata imporre ritmi di lavoro serrati con pochissime pause e molti controlli. L’introduzione del braccialetto sarebbe solo l’ultimo tassello. Ma è il principio stesso della dignità del lavoro e dell’uomo ad essere messo in discussione. «Non è la tecnologia ad influenzare il lavoro ma l’assenza di un’idea giusta del lavoro» commenta Federico Butera, professore emerito di Scienze dell’Organizzazione dell’Università Milano Bicocca, che invita a riflettere sulla distinzione fondamentale tra i compiti (qualcuno deve confezionare i pacchi) e il ruolo di un lavoratore. «C’è un buco nero in questo processo, il considerare queste persone come delle macchine, una specie di sotto-robot. Mentre la vera domanda da porsi è quella di chi è il lavoratore, che ruolo deve avere. Bisogna rispettare la sua dignità, farlo sentire parte di una squadra». Sulla stessa lunghezza d’onda anche Flavio Felice, docente di Dottrine politiche all’università del Molise e alla Pontificia Università Lateranense, che sottolinea come «l’uomo non può essere ridotto a strumento di produzione perché la forza lavoro non è solo forza meccanica ma pensante». «Da una prospettiva cristiana - aggiunge Felice, membro del comitato scientifico delle Settimane Sociali - il lavoro è la condizione esistenziale in cui si nutre l’uomo. Quella di Amazon sembra una visione molto limitata, senza dignità, ma non bisogna essere apocalittici e riconoscere che dà lavoro a molte persone e che ancora non si sa molto di questo ipotetico strumento». Il problema insomma non è la tecnologia, che non è buona o cattiva, ma il suo utilizzo. «Per assurdo potremmo dire che anche il pilota di un aereo fa un lavoro da robot, perché il 99% delle sue azioni è predisposto dalla tecnologia - avverte Butera - ma evidentemente non è così perché il controllo dell’aereo è nelle sue mani». Il rischio è che si faccia un salto indietro nel passato, alle condizioni disumane della catena di montaggio nelle fabbriche. «Ad un certo punto si è visto che quel modo di lavorare non produceva risultati e si è passati a gruppi di lavoro in cui gli operai si sentivano parte di una squadra» conclude il professore della Bicocca.

Per Carlo Capè, presidente di Assoconsult (associazione delle imprese di consulenza che fa parte di Confindustria) non è tanto il pericolo del 'Grande fratello' quanto il neo-taylorismo legato alla riduzione dell’uomo a macchina quello che deve far riflettere. «Molti lavoratori oggi sono monitorati, si pensi a chi guida un autobus o un camion, ma degradare il lavoro in questo modo è assurdo». La rivoluzione tecnologica anzi secondo Capè può portare gli uomini a liberarsi da alcuni compiti meccanici e a poter lavorare per obiettivi grazie allo smartworking. «L’impressione è che questo braccialetto trasformi l’operatore logistico in un robot alle dipendenze del digitale e non il contrario come dovrebbe essere». Per uscire dall’incubo della trasformazione in automi la soluzione, al di là delle regole nazionali, secondo il professor Felice ci vuole un’alleanza delle istituzioni internazionali in nome della dignità del lavoro. «Un processo complicato, come avviene per la lotta alla produzione delle armi – spiega – . È un problema globale quello legato ai lavoratori dell’era digitale, che va affrontato a partire anche dalla fiscalità. Servono regole chiare e uniformi, altrimenti il problema non si risolve ma si sosta soltanto».

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