venerdì 10 marzo 2023
A colloquio con le ragazze e le donne rifugiate seguite della Casa della carità di Milano: le più giovani già inserite in progetti lavorativi. Le adulte in difficile equilibrio tra passato e futuro
Zakia e la figlia Zamzama nella Casa della carità di Milano

Zakia e la figlia Zamzama nella Casa della carità di Milano - Per gentile concessione della Caritas di Milano

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Con questa e decine di altre testimonianze, storie, interviste e lettere, le giornaliste di Avvenire danno voce alle bambine, ragazze e donne afghane. I taleban hanno vietano loro di studiare dopo i 12 anni, frequentare l'università, lavorare, persino uscire a passeggiare in un parco e praticare sport. Noi vogliamo tornare a puntare i riflettori su di loro, per non lasciarle sole e non dimenticarle. E per trasformare le parole in azione, invitiamo i lettori a contribuire al finanziamento di un progetto di sostegno scolastico portato avanti da partner locali con l'appoggio della Caritas. QUI IL PROGETTO E COME CONTRIBUIRE

La voce di Zakia si incrina solo quando deve rispondere a una domanda forse poco delicata: ha nostalgia del suo Paese? «Tantissima», sussurra questa donna matura, dal viso tondo e i capelli incorniciati da un fazzoletto a fiori. La figlia 18enne Zamzama si rabbuia, si capisce che non sopporta di vedere la madre piangere. Del resto non si tratta solo di nostalgia di una città, Kabul, e dei paesaggi rocciosi dell’Afghanistan. È nostalgia di due sorelle rimaste laggiù, in condizioni di sopravvivenza difficili. È nostalgia del suo lavoro: Zakia era educatrice di bambini autistici in una scuola speciale, gestita da una Ong straniera. I taleban, al loro arrivo nella capitale nell’agosto 2021, l’hanno rasa al suolo e incendiato tutti gli archivi. Alcune delle insegnanti sono state uccise in odio alle donne che avevano osato lavorare per gli occidentali. Dove saranno ora i bambini e le bambine di Zakia? In quale scantinato languiranno, notte e giorno? Lei ora è in Italia, a Milano, fuggita con il marito, un ex ufficiale delle forze armate del governo filo-occidentale, e i due figli, un ragazzo 24enne e Zamzama, 19 Sono arrivati con i corridoi umanitari nel settembre 2021, in un gruppo di 31 persone, e da allora un passo alla volta proseguono sulla strada dell’integrazione.

Vivono all’Adriano community center, una struttura che di per sé già parla di speranza: nata come una Rsa all’avanguardia, trasformata in Covid hotel, poi aperta al quartiere come luogo di cultura e di progetti di socialità condivisa. Tra cui c’è il cohousing per gli anziani soli e soprattutto l’accoglienza dei profughi di ogni nazionalità, grazie alla partnership con la Casa della carità.

Al momento i 31 afghani seguiti dalla Casa della carità sono richiedenti asilo con status di rifugiati; alcuni lavorano. Non Zakia, che deve ancora familiarizzare con la lingua italiana. Non il marito, che porta sul corpo e sull’animo i segni delle torture subite durante il primo emirato dei taleban. La figlia Zamzama sì: ha un contratto part-time in un ristorante McDonald, le piace stare in mezzo alla gente, agita i lunghi capelli in parte biondi e in parte castani e dice che no, il velo non lo porta perché qui non è come in Afghanistan, dove senza non si poteva andare: «Qui nessuno dice niente, nessuno mi importuna», dice sorridendo. E racconta che le sue coetanee rimaste nell’emirato, con alcune delle quali riesce a tenersi in contatto attraverso WhatsApp, se la passano male: niente scuola, niente lavoro: «Stanno a casa, cucinano, si sposano e mettono al mondo figli, già a 16 o 17 anni», racconta. Il fratello di Zamzama, 24 anni, a Kabul aveva un concessionario di automobili; a Milano ha trovato un lavoro in una ditta di pulizia.

Accanto a loro, nel salone della Casa della carità in cui hanno incontrato le giornaliste di Avvenire, c’è Kalida che allatta la sua neonata. Ha 25 anni e anche lei è fuggita da Kabul all’indomani dell’arrivo dei taleban: il marito lavorava per il ministero della Difesa del governo filo occidentale e restare era un rischio. «In Afghanistan ho lasciato mia madre, vedova da 10 anni, e sei fratelli minori. Nella città di Takhar hanno dei campi, vivono di quello. Mio marito ora lavora nel ristorante di un magazzino Ikea, sta studiando l’italiano. Mandiamo un po’ di denaro alla mia famiglia, per aiutarli». La sua piccola è nata in Italia, per ora Kalida non lavora. Ma negli occhi ha il sogno di poterlo fare presto e la certezza di poterlo realizzare.

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