sabato 9 giugno 2018
Assassinato dal militari golpisti nel 1976 a causa del suo impegno per gli oppressi. La sua morte sconvolse un giovane padre Bergoglio. L'omicidio punito solo nel 2014 con l'ergastolo a ex generale
Cartello sul luogo in cui fu assassinato monsignor Angelelli

Cartello sul luogo in cui fu assassinato monsignor Angelelli

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Sarà presto beato monsignor Enrique Angelelli, vescovo argentino, che da molti viene indicato come il "Romero dell'Argentina", assassinato dai militari il 4 agosto del 1976, durante il cosiddetto Processo di Riorganizzazione Nazionale a causa del suo impegno sociale a favore degli oppressi. Dopo 42 anni, viene riconosciuto il martirio per il vescovo di La Rioja e per i compagni, i padri

Carlos Murias e Gabriel Longueville e il laico Wenceslao Pedernera. Papa Francesco ha autorizzato la Congregazione delle Cause dei Santi a promulgare il relativo Decreto.

“Devoto con la fede del pellegrino, camminante instancabile di ricordi, bisaccia colma di speranze, con il suo ritmo di ton ton… Così è l’animo del mio popolo”. Ricorreva ai versi Enrique Angelelli per descrivere La Rioja e la sua gente. Solo la parola poetica riusciva a raccontare l’amore profondo per il popolo gli era toccato in sorte di accompagnare come pastore. Il popolo, tutto il popolo. A partire, però, come gli aveva insegnato il Vangelo e confermato il Concilio Vaticano II – a cui aveva partecipato -, da “los nadie”, i senza potere, senza ricchezza e per questo senza voce. La maggioranza degli abitanti de La Rioja, intrappolati in un sistema di sfruttamento semi-feudale.

Una scelta pericolosa quella di Angelelli. Specie alla vigilia dell’ultima e più feroce dittatura militare argentina. Facile, nel clima di polarizzazione degli anni Settanta, far passare la difesa evangelica della giustizia per “comunismo”. Facile perfino, una volta che i generali conquistarono il potere con il golpe, far uscire di strada il vescovo de La Rioja e camuffare l’omicidio, avvenuto il 4 agosto 1976, da incidente stradale. La verità storica e giudiziaria è stata scritta in modo indelebile solo 38 anni dopo, con la sentenza che il 4 luglio 2014 ha condannato all’ergastolo l’ex generale Luciano Benjamín Menéndez e l’ex commodoro Luis Fernando Estrella per aver, rispettivamente, ordinato e messo in atto l’assassinio. O meglio “martirio in odio alla fede” e beato ha affermato ora la Chiesa.

In realtà, il martirio di monsignor Angelelli è cominciato bel prima di quel fatidico giorno sulla strada da Chamical a La Rioja, fra le montagne affilate del nord-est argentino. La campagna diffamatoria nei suoi confronti è stata brutale fin dal suo ingresso in diocesi, nel 1968. Articoli infarciti di calunnie sui quotidiani locali, manifesti, vere e proprie aggressioni. Oltre allo stillicidio dei suoi diretti collaboratori. Come i sacerdoti Carlos de Dios Murias e Gabrile Longueville, e il laico Wenceslao Pedernera, sequestrati, torturati e massacrati, il 18 luglio 1976, giorno del compleanno del vescovo.

Proprio dopo una serie di indagini su quel delitto, Angelelli stava tornando da Chamical quando è stato a sua volta ucciso. Il suo sangue non ha fermato la macchina del fango. Alimentata a lungo, nel tempo, dalle bugie per far apparire, agli occhi dell’opinione pubblica, il vescovo come un “amico dei terroristi”.

“Terrorista” gli gridava quel 13 giugno 1973, mentre gli scagliava addosso i sassi, la folla inferocita di Anillaco, dove si era recato per la festa patronale. A sobillarla ad arte era stato l’allora governatore, Carlos Ménem, lo stesso che poi sarebbe diventato due volte presidente e avrebbe accumulato una sfilza di accuse di corruzione. Angelelli sopportò l’umiliazione e molte altri dolori e persecuzioni con “profetica pazienza”.

Un atteggiamento evangelico che commosse profondamente il giovane gesuita giunto a La Rioja proprio il giorno de la “sassaiola di Anillaco” per un ritiro spirituale. Il suo nome era Jorge Mario Bergoglio. “Mi sono trovato di fronte una Chiesa perseguitata, tutta, popolo e pastore”, una Chiesa che si è “fatta sangue, che si chiamava Wenceslao, Gabriel, Carlos, testimoni della fede che predicavano e che hanno dato il loro sangue per la Chiesa, per il popolo di Dio e per la predicazione del Vangelo”, una Chiesa che “alla fine si è fatta sangue nel suo pastore”.

Lo ha raccontato lo stesso Bergoglio, ormai arcivescovo di Buenos Aires e cardinale, durante la Messa a trent’anni dalla morte di Angelelli, il 4 agosto 2006. Quel primo incontro sancì l’inizio di un’amicizia tra il gesuita e il vescovo de La Rioja che portò quest’ultimo ad affidargli tre seminaristi – Enriquez Martínez Ossola, Miguel La Civita e Carlos González -, per proteggerli dalla persecuzione dei militari. Angelelli era fatto così: non si preoccupava dei rischi per se stesso. Il suo amore paterno, concreto, affatto ideologico era per ognuna delle “pecorelle” del gregge di La Rioja. Del resto lo ripeteva sempre: un pastore deve avere “un orecchio al Vangelo e l’altro al popolo”. Una frase che, secondo vari analisti, avrebbe ispirato un passo dell’Evangelii gaudium: “Un predicatore è un contemplativo della Parola e anche un contemplativo del popolo”.

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