lunedì 8 aprile 2013
​Il ministero papale ha le sue radici nella figura di san Pietro: a chi, come lui, è vescovo di Roma è chiesto di «pascere il gregge di Cristo»
COMMENTA E CONDIVIDI
Comunemente, e di fatto esclusivamente, si trova riservato al Papa l’appellativo di «vicario di Cristo». In realtà nella tradizione con l’appellativo di «vicari di Cristo» sono anche chiamati i vescovi (così già l’Ambrosiaster nel IV secolo), mentre dei presbiteri si dice che celebrano «in rappresentanza di Cristo» (in persona Christi); non solo, ma gli stessi poveri sono talora denominati «vicari di Cristo». Al Sommo Pontefice tuttavia viene attribuito un altro titolo, che compete solo a lui, qualificandolo immediatamente e insieme indicandone il ministero, ed è quello di «vicario di Pietro» (vicarius Petri). Lo troviamo usato nel Registrum Epistolarum (XII, 7) di Gregorio Magno, dove si parla di «vicario di san Pietro principe degli Apostoli»; in Anselmo d’Aosta (Epist. 262, De sacrificio azimi et fermentati); in Bernardo di Clairvaux (Epist. 183, 346).Definendo il Papa «vicario di Pietro», si pone subito in risalto la ragione del suo primato, che è quella di essere il successore di colui che Gesù scelse come «Pietra» su cui viene edificata la sua Chiesa (Mt 16,18) e come pastore al quale è assegnata la missione di pascere il suo gregge (Gv 21, 15-17). Cristo affida il carisma del primato a chi è vescovo di Roma, la stessa sede di Pietro, il «primo» degli Apostoli (Mt 10,2). Come recita il canone 331 del Codice di Diritto Canonico: «L’ufficio concesso dal Signore singolarmente a Pietro, primo degli Apostoli» e «destinato a essere trasmesso ai suoi successori», «permane nel vescovo della Chiesa di Roma», e come tale, «capo del collegio dei vescovi, vicario di Cristo, Pastore qui in terra della Chiesa universale».Il titolo di «vicario di Pietro», evocando espressamente la figura dell’Apostolo e quindi la Chiesa romana, richiama il primato del Papa come conseguenza della successione episcopale in quella Sede. È l’ordinazione episcopale, cioè il fatto di essere vescovo della Chiesa di Roma, che inserisce nella successione a Pietro. Ancora il Codice di Diritto Canonico afferma: «il Romano Pontefice ottiene la potestà piena e suprema sulla Chiesa con l’elezione legittima, da lui accettata, insieme con la consacrazione episcopale» (can. 332, § 1).Qualche problema rimane – ed è oggetto di discussione – quando l’eletto, che abbia accettata la designazione, non sia ancora vescovo. Al riguardo, sempre il Codice di Diritto Canonico dichiara: «L’eletto al sommo pontificato che sia già insignito del carattere episcopale ottiene [la potestà piena e suprema sulla Chiesa] dal momento dell’accettazione. Che se l’eletto fosse privo del carattere episcopale, sia immediatamente ordinato Vescovo» (ibid.).Se mancasse tale carattere, da un lato il Papa non sarebbe nel Collegio episcopale, non essendo vescovo, ma non è concepibile un Papa disgiunto dal Collegio episcopale, che deriva da una istituzione divina; ma dall’altro neppure si avrebbe il Collegio episcopale, che, per essere tale, bisogna che sia «con Pietro» e «sotto Pietro». Com’è detto nella Lumen Gentium: «Il collegio o corpo episcopale non ha autorità, se non lo si concepisce unito al Pontefice romano, successore di Pietro, quale suo capo» (n. 22).Quale Chiesa di Pietro e dei suoi successori, alla stessa Chiesa di Roma si riconosce un carattere «primaziale». E, infatti, già secondo Ignazio di Antiochia (†107), la Chiesa stabilita «nella regione dei Romani» ha una sua «presidenza». Precisamente: «presiede alla carità (agape)». L’espressione non è chiara, ma non sembra voler dire che tale Chiesa si distingue nelle «opere» di carità, o che ha una sua preminenza nei confronti della comunità cristiana, designata come «carità», ma che «tiene il primo rango in ciò che è essenziale nel cristianesimo» (Pierre-Thomas Camelot), cioè nella «carità» (agape).In ogni caso, la deferenza e l’elogio di Ignazio per la Chiesa di Roma sono ampi e ripetuti. Prima di rilevare il suo primato nella carità, egli scrive che essa «è degna di Dio, degna di onore, degna di essere chiamata beata, degna di lode, degna di successo, degna di purezza»; e dopo d’aver detto che «presiede alla carità», continua: essa «porta la legge di Cristo, porta il nome del Padre» (Lettera ai Romani, Saluto).Quanto alla carità Ireneo di Lione (†202), a sua volta, dichiarerà che lo è per la fede. Egli, dopo aver parlato della «Chiesa grandissima e antichissima e a tutti nota, la Chiesa fondata a Roma e stabilita a Roma dai due gloriosissimi apostoli Pietro e Paolo», soggiunge: «con questa Chiesa, in ragione della sua origine più eccellente, deve necessariamente essere d’accordo ogni Chiesa, cioè i fedeli che vengono da ogni parte – essa nella quale per tutti gli uomini sempre è stata conservata la Tradizione che viene dagli Apostoli» (Adversus Haereses, III, 1-2).Torniamo al titolo «vicario di Pietro»: lo abbiamo giudicato specialmente felice perché fa riferimento al carattere episcopale del Papa e quindi alla sua inclusione nel Collegio dei vescovi – essendo Pietro vescovo –, e simultaneamente alla prerogativa primaziale personale – essendo Pietro vescovo di Roma: due peculiarità indissociabili, dal momento che il primato rispetto alla Chiesa universale è inscindibilmente compreso nell’episcopato romano. Detto in altre parole: chi è vescovo della Chiesa di Roma, è per ciò stesso Papa, senza possibilità di disgiunzione.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: