martedì 11 febbraio 2020
Il Papa spinge la Chiesa a essere «locanda del buon Samaritano» Don Massimo Angelelli (Cei): parrocchie più missionarie per farsi accanto alla solitudine degli infermi
Don Angelelli (Cei): «Bussiamo alla porta di chi soffre

Vatican Media

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Tra “ferite” e “feritoie” cambiano solo due lettere ma c’è tutta la distanza che passa tra un mondo nel quale il malato è solo un caso (clinico) e un altro dove la sua infermità non è il capolinea ma un punto di osservazione dal quale si apre una visuale imprevista sulla vita: «In questa condizione – scrive il Papa rivolgendosi ai malati nel Messaggio per la loro Giornata mondiale che si celebra oggi, memoria della Vergine di Lourdes – avete certamente bisogno di un luogo per ristorarvi», richiamo al versetto di Matteo («Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro») che Francesco ha scelto come tema. «La Chiesa – aggiunge – vuole essere sempre più e sempre meglio la “locanda” del buon Samaritano che è Cristo, cioè la casa dove potete trovare la sua grazia che si esprime nella familiarità, nell’accoglienza, nel sollievo». A cambiare il senso di quella «notte del corpo e dello spirito» che è la malattia saranno «persone che, guarite dalla misericordia di Dio nella loro fragilità, sapranno aiutarvi a portare la croce facendo delle proprie ferite delle feritoie, attraverso le quali guardare l’orizzonte al di là della malattia e ricevere luce e aria per la vostra vita». «Scienza e medicina curano sempre meglio, ma le dimensioni relazionale e spirituale esprimono domande che restano aperte» commenta don Massimo Angelelli, direttore dell’Ufficio Cei per la pastorale della salute.

Che cosa chiede il Papa?
Ci ricorda la fatica e la stanchezza dei tanti infermi oggi lasciati soli. C’è una dimensione relazionale della malattia di cui Francesco invita tutta la Chiesa a farsi carico. Al letto del malato ci devono essere il medico e l’infermiera ma anche la comunità cristiana. La cultura digitale sta esasperando l’individualismo, ma la vulnerabilità svelata dalla malattia mostra il limite della presunta autosufficienza: abbiamo bisogno di qualcuno. Il delirio dell’io naufraga quando emerge la nostra fragilità, sempre più negata. Il peggio per il malato è la solitudine. Ci si scopre “scartabili” da una società che accantona chi non è più efficiente.

C’è una risposta all’altezza?
Bisogna ricostruire la dimensione umana della relazione, che vale per i pazienti, per le loro famiglie, ma anche per gli operatori sanitari, pressati da altre priorità. Spesso il malato non si sente “guardato” da nessuno, e il medico avverte la solitudine davanti al prevalere dell’organizzazione che trasforma i pazienti in pratiche da sbrigare: non è per questo che aveva deciso di indossare il camice...

Sono temi che irrompono anche nella cronaca di questi giorni. Gli ordini dei medici hanno appena modificato il Codice deontologico escludendo conseguenze disciplinari per chi aiuta il proprio paziente a suicidarsi, atto della solitudine più disperata...
Mi aspettavo dagli organismi professionali una vera sottolineatura della medicina come cura delle persone. Si poteva attendere l’eventuale traduzione in legge della sentenza della Corte Costituzionale sulla depenalizzazione del suicidio assistito, non c’era fretta di cambiare il Codice... Credo che questa decisione allarghi il divario tra medici e cittadini.


Quella odierna è la XXVIII Giornata mondiale del malato. A istituirla, fu nel 1992 Giovanni Paolo II con un’apposita Lettera al cardinale Fiorenzo Angelini, presidente del Pontificio Consiglio della pastorale per gli operatori sanitari. Testo in cui il Papa auspicava che la Giornata divenisse un «momento forte di preghiera, di condivisione, di offerta della sofferenza per il bene della Chiesa e di richiamo a riconoscere nel volto del fratello infermo il Santo Volto di Cristo».

In che cosa si sta impegnando la Chiesa italiana sul fronte della salute e della malattia?
Vedo una crescente vivacità diffusa, che ci ha portati ad aggiungere per la prima volta alle due consuete schede per la Giornata – pastorale e liturgica – una terza sull’animazione in parrocchia. Le comunità sono parte di un territorio nel quale ci sono i malati, sempre più spesso invisibili e “irraggiunti”. Spetta alle parrocchie “uscire”, andare incontro agli infermi, farsi missionarie nelle case dove abita la sofferenza. E spetta a noi tutti bussare alla porta di chi ci vive accanto e sperimenta una forma di dolore. Oggi c’è bisogno di una cura dell’altro che esprima il comandamento dell’amore.

Ci sono progetti per aiutare a rendere operativa questa evidenza?
Penso a un coordinatore parrocchiale di pastorale della salute come riferimento delle figure impegnate accanto ai ma-lati, che ne raccolga le segnalazioni sui diversi casi. Sta prendendo forma anche l’infermiere di comunità in parrocchia, per creare un legame tra le strutture sanitarie e le situazioni di sofferenza affiorate grazie alla rete di relazioni nella comunità. La parrocchia è luogo di incontro tra un’attesa non vista e un’offerta non conosciuta. Bisogna uscire, cercare, avvicinarsi. Lo esige il Vangelo.

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