martedì 30 maggio 2017
Il cardinale ripercorre la giornata di sabato: Francesco ci invita a essere sempre di più una Chiesa in uscita. L’unica via contro la crisi è parlarsi sui grandi temi: famiglia occupazione...
Bagnasco: «Un patto per la rinascita di Genova»
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La battuta arriva quasi inevitabile al termine del colloquio: «Ma poi ha fatto pagare qualcosa al Papa?». Il cardinale Angelo Bagnasco ride di gusto, ricordando quanto Francesco gli aveva detto all’Assemblea della Cei. «Abbiamo scherzato su questo anche durante la visita, sa? E nel saluto finale ha sorriso quando gli ho detto che, nonostante qualche 'mito', Genova è una città generosa ». Poi però l’arcivescovo di Genova aggiunge con voce accorata: «In realtà siamo noi che dobbiamo molto al Santo Padre. E colgo questa occasione per rinnovargli a nome di tutti i genovesi l’affetto e la gratitudine per essersi sottoposto a una visita estremamente intensa che ci ha lasciato ammirati». È domenica pomeriggio quando il porporato apre nuovamente le stanze dell’episcopio per un’intervista di bilancio sulla «meravigliosa esperienza» vissuta 24 ore prima. Gli ambienti, dopo il comprensibile andirivieni e l’animazione dei giorni di vigilia, sono silenziosi. Anche dalle finestre che danno sulla piazza prospiciente il Palazzo Ducale arrivano pochi rumori. Sembra quasi che l’intera città, dopo la festa di sabato, si stia concedendo uno spazio di riflessione. È il momento di tirare le prime somme.

Eminenza, all’Angelus di domenica il Papa ha ringraziato Genova per la «calorosa accoglienza». Lei ha parlato di «evento di grazia ». Qual è il suo personale bilancio?
Abbiamo vissuto tanti momenti importanti, belli, commoventi. Con i lavoratori, i sacerdoti e i religiosi, i giovani, i poveri e gli immigrati, i bambini dell’Ospedale Gaslini. Ma quando il Papa ha abbracciato la città e la diocesi durante la Messa conclusiva e nello stesso tempo è stato abbracciato da noi, quello a mio avviso è stato il momento più significativo, il riassunto di quanto il Santo Padre ha detto.

Quali sono state secondo lei le parole chiave della visita?
Soprattutto direi «orizzonte e coraggio». Cioè il coraggio di andare al largo verso l’orizzonte. Tra l’altro sono due parole legate alla nostra tradizione di città di mare, perché noi sappiamo bene che senza orizzonte non è possibile neanche cominciare una navigazione. E che senza il coraggio di rischiare, l’orizzonte rimane soltanto uno sguardo più o meno estatico. Quindi queste due parole si applicano a tutte le altre che ha detto nelle diverse tappe della visita, in qualche modo completandole.

Qual è l’orizzonte di Genova dopo la visita del Papa?
Dobbiamo guardare lontano e progettare il futuro nell’ambito del lavoro, della famiglia della demografia. La nostra, purtroppo, è la città più vecchia d’Italia dal punto di vista della natalità, così come la Liguria lo è tra le regioni. Dunque il primissimo obiettivo che Genova – ma direi il Paese intero – deve porsi è il rilancio della famiglia, che va molto più valorizzata, ammirata sul piano culturale e non deprezzata come se fosse l’origine di tutti i mali. Dall’altra par- te dico: lavoro, lavoro, lavoro, perché le due tematiche sono strettamente collegate.

E l’orizzonte della Chiesa?
Anche sul piano ecclesiale orizzonte e coraggio devono essere di stimolo. Come ho detto al Papa nei nostri bei colloqui informali durante i tragitti in macchina, noi liguri abbiamo un carattere schivo, ma concreto. Amiamo più fare che parlare e siamo legati al territorio. E anche la nostra è una pastorale sul territorio, vicina alla gente. E questo è sicuramente un valore. Tuttavia c’è anche il rischio che a lungo andare si crei un po’ di staticità. Il Papa è venuto a darci una spinta ulteriore.

Ripercorriamo, dunque le diverse tappe, a partire dall’incontro con il mondo del lavoro. È un caso che il richiamo al «lavoro per tutti» sia stato fatto a Genova, patria del fondatore della forza politica che più spinge per il «reddito per tutti»?
Non so se ci sia stata nelle parole del Papa una intenzionalità di questo tipo. Certamente però egli ha toccato un nervo importantissimo non solo di Genova ma del Paese intero. Perché se ci pensiamo bene, la questione del «reddito per tutti» coinvolge tutta l’Italia. Può essere uno slogan suggestivo e per qualcuno appetibile, ma in realtà risulta non degno della responsabilità della persona umana, perché resta sul piano assistenziale e una persona non può vivere di sola assistenza.

In che modo la Chiesa di Genova farà tesoro delle parole del Papa riguardo alla questione lavoro, in una realtà fortemente toccata dalla crisi?
Credo che il metodo pastorale di presenza sui luoghi di lavoro, che è stato inaugurato fin dal 1943 dal cardinale Boetto e poi incrementato fortemente dal cardinale Siri, ne esca non solo confermato e incoraggiato, ma decisamente arricchito. Continueremo dunque su questa strada, grazie alla presenza umile, discreta, attenta e regolare dei cappellani e, se potrò, la intensificherò con altri sacerdoti. Ma nello stesso tempo mi sento incoraggiato a tentare altre possibilità. Spesso mi chiedono incontri per scambiare idee tra i diversi livelli di responsabilità manageriale e amministrativa. Chiaramente non sono incontri in cui si deve decidere qualcosa, ma è senz’altro utile parlarsi a cuore aperto, gli uni davanti agli altri, alla ricerca del bene di Genova e della gente.

In vista dell’elezione del sindaco (11 giugno più eventuale ballottaggio), quale agenda consegna questa visita del Papa a chi sarà eletto?
Il Papa ha fornito tanto materiale di riflessione a chi assumerà la guida della cosa pubblica. Basti solo pensare all’incontro con il mondo del lavoro. Serve un programma urgentissimo da realizzare per creare occupazione e da questo programma non ci si può più distrarre, come purtroppo ci si è distratti – e a mio parere ci si continua a distrarre – a livello nazionale.

Potrebbe nascere così un nuovo patto per la rinascita di Genova?
Lo spero molto e sempre più spesso nei miei interventi pubblici ripeto che l’unica strada per uscire dalla crisi è quella di parlarsi sui grandi temi per il futuro della città: lavoro, strutture, tessuto sociale, famiglia. Perché nessuna parte – né politica, né imprenditoriale, né sindacale – ha da sola la verità in tasca del bene di una città articolata, complessa e sofferente, ma anche ricchissima di potenzialità, come è Genova. Quindi spero e auspico che nell’immediato futuro, anche sulla scia di quanto ci ha detto il Papa, tutti i soggetti coinvolti imparino a parlarsi.

Francesco ha detto anche a Genova che «i nostri luoghi di annuncio sono le strade del mondo». Che cosa significa questo nella realtà locale?
Come ho già detto, i nostri sacerdoti sono abituati a stare tra la gente. Ma il Papa ci invita ad essere sempre più una Chiesa in uscita e lo ha detto in diverse occasioni, anche durante l’incontro in Cattedrale con i consacrati. Si prenda ad esempio la questione degli orari sulla quale Francesco insiste molto. Una Chiesa che non è in uscita va rigorosamente ad orari di ufficio. Oppure non è attenta ai ritmi di vita delle persone e finisce per fissare incontri e attività quando la gente lavora o quando, alla fine di una giornata sfiancante, sta tornando a casa. Quindi stiamo attenti a non ridurre le nostre chiese a uffici e ad essere maggiormente compagni di strada.

Francesco ha tradotto il tutto con il neologismo missionare. I giovani, ai quali in particolare ha rivolto l’invito, possono essere i protagonisti del cambio di passo di Genova?
I giovani certamente danno agli adulti la possibilità di non smettere di sognare e con loro possono ravvivare la capacità di futuro. Ho visto questo in diverse parrocchie dove i ragazzi di tutte le età sono perfettamente integrati con gli adulti, tanto da essere trattati alla pari. L’importante è non fare la Chiesa dei giovani, degli adulti, dei bambini o dei vecchi. La Chiesa è il popolo di Dio e dobbiamo educare i giovani a non sentirsi Chiesa settoriale, ma Chiesa del popolo di Dio, che guarda insieme al presente e al futuro. Proprio il Papa ci ha ricordato che un giovane può essere vecchio se è steso sul divano e un vecchio può sempre sognare.

Lei è stato testimone oculare della parte più riservata della visita: la tappa all’ospedale pediatrico Gaslini. Ce la può raccontare?
Il Papa ha visto che il Gaslini è veramente un santuario della sofferenza, un concentrato di ciò che è il mistero del male fisico nel mondo, perché quando tocca bambini appena nati, che per le loro dimensioni stanno magari in una mano di un adulto, questo è qualcosa di sconvolgente. Nello stesso tempo però ha toccato proprio quella mano che sorregge queste piccole creature: una mano estremamente affettuosa, competente, attenta, la mano dei medici, del personale, dei volontari, dei cappellani. E poi ha visto le famiglie, i genitori, pronti a sacrificare tutto per stare accanto a queste creature, per cui spendono tutte le loro lacrime e il loro cuore, purché possano superare la malattia. Questo mistero lo ha toccato moltissimo e nello stesso tempo l’ospedale nel suo insieme è stato segnato dalla presenza di papa Francesco che, al di là delle parole conclusive molto belle, ha parlato soprattutto con il suo sguardo, con la sua delicatezza, con la sua benedizione, in uno scambio intensissimo fatto soprattutto di sguardi e di silenzi.

Per lei, tra assemblea della Cei e visita del Papa, è stata una settimana particolare. Anche alla luce di questi eventi, come definirebbe il rapporto tra papa Francesco e la Chiesa italiana?
Un rapporto in continuo crescendo, che si è arricchito, intensificato ed è divenuto sempre più solido e luminoso grazie a questi anni di conoscenza, di preghiera comune, di ascolto vicendevole, di visite alle Chiese particolari. Dunque un rapporto che diventa sempre più bello e fecondo.

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