martedì 13 giugno 2017
Dalla collaborazione di Cism e Usmi è nato un progetto rivolto a ragazzi dai 6 ai 12 anni con difficoltà di apprendimento
Una madre con il figlio a Kabul (Reuters)

Una madre con il figlio a Kabul (Reuters)

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Accorato e pressante il grido di san Giovanni Paolo II nel Messaggio natalizio del 2001: «Salvate i bambini di Kabul!». Un grido che richiamava l’attenzione sulla situazione dei bambini coinvolti nelle guerre, travolti dalla violenza o andicappati, di cui tutti parlano, che commuovono anche gli animi più induriti, ma che generalmente non va oltre il classico e corale “poverini” ogni volta che se ne sente parlare. In quel Natale, però, accadde qualcosa di diverso. Tra gli ascoltatori c’era il guanelliano padre Giancarlo Pravettoni, il quale, stimolando la naturale propensione alla solidarietà della Cism (Conferenza italiana superiori maggiori) e dell’Usmi (Unione superiore maggiori italiane) riuscì a convincere alcune famiglie religiose, particolarmente sensibili alle situazioni umanitarie e già impegnate nell’assistenza ai minori, a impegnarsi in un progetto temerario e coraggioso: aprire a Kabul un centro per bambini con disabilità. Risposero quattordici Congregazioni, sette maschili e sette femminili. Fra queste ultime, dopo otto mesi di preparazione linguistica, culturale, psico-pedagogica, sanitaria, carismatico-spirituale, tre inviarono a Kabul le prime quattro suore: due pachistane, una polacca e una italiana, appartenenti a tre congregazioni diverse. Nacque, così, l’associazione “Pro bambini di Kabul” (Pbk), una ong riconosciuta dal governo afghano che completò la preparazione delle suore per «l’avventura a Kabul», dove arrivarono nel novembre del 2004. «Una realtà – spiega don Wladimiro Bogoni, presidente del Pbk – che vuole contribuire a promuovere un nuovo atteggiamento per l’affermazione della dignità umana ed essere segno di speranza e seme di carità della vita religiosa in una terra chiamata a diventare un angolo del Regno di Dio».

Dopo quasi due anni di disagi, le suore riuscirono a trovare due case, una per abitazione e l’altra per il Centro diurno destinato alle attività educative. Non alla scuola, sottolineano energicamente, ma a un’educazione che prepara anche alla scuola pubblica in cui altrimenti i bambini disabili non sarebbero ammessi. Le suore, che attualmente sono tre, lavorano con 40 bambini in difficoltà di apprendimento fra i 6 e i 12 anni, preparandone per la scuola statale 8-9 l’anno, che risultano sempre i primi fra tutti i coetanei. Non per nulla le scuole governative mandano i loro maestri al Centro per imparare come si educano e si trattano i bambini, grazie anche ai corsi di aggiornamento tenuti periodicamente da un’esperta italiana dell’Università Cattolica di Milano. «Viviamo in una casa piccola e misera – dice Suor Annie Joseph Punthemparanbil, della Congregazione delle suore di San Giuseppe Cottolengo – vestiamo come la donne afgane e non possiamo mostrare nessun segno religioso. Usciamo tre volte la settimana per andare a Messa nella cappella dell’ambasciata italiana, riservando quella interna all’adorazione e alla comunione nei giorni in cui non andiamo a Messa. Il lavoro, che comprende trasporto, istruzione di base, disegno e musica, sviluppo personale e sociale, educazione fisica, corretta alimentazione, gioco libero e guidato, è svolto d’accordo con il ministero dell’Educazione che ne apprezza l’utilità e ci chiede di aprire altri centri nel Paese. Il nostro dispone di quattro aule: una sala-giochi per l’inverno, un salone multifunzionale, un salottino per l’accoglienza dei genitori e un altro per il pediatra che ogni sabato visita gli ospiti, “disabili mentali non gravi”, come prevede il progetto Inclusive education cui il Centro fa riferimento insieme al ministero dell’Educazione nazionale che nel novembre 2008 ha riconosciuto ufficialmente le attività educative del Centro stesso. Non è un caso, quindi, che l’Unesco abbia scelto proprio qui il bambino riportato su una copertina della propria rivista». «Superfluo sottolineare la soddisfazione dei genitori coinvolti nel processo educativo – prosegue la religiosa – e che esprimono la loro gratitudine con un commovente e sincero “preghiamo per voi”, detto non perché sanno che siamo consacrate, ma perché hanno capito che siamo qui per i loro figli, i quali, nel giro di due o tre settimane, imparano a salutare, a mangiare, a lavarsi il viso. Piccole cose, indubbiamente, ma determinanti per l’educazione successiva. Nessun genitore manca alle feste di compleanno, una novità per le famiglie che hanno bambini diversamente abili e che organizziamo per evitare ai piccoli di sentirsi inferiori agli altri che lo festeggiano in casa, anche se ci porta via molto tempo e non poche spese. Per la stessa ragione abbiamo chiesto che tutti vengano al centro con scarpe e divisa, due cose che li rendono uguali agli altri».

«Noi condividiamo l’attività con una piccola comunità di Piccole Sorelle di Gesù, con un minuscolo gruppo di Suore di Madre Teresa e con alcuni Gesuiti indiani, con i quali formiamo una chiesa viva e di tinta ecumenica per la presenza di una comunità di religiosi luterani, con cui viviamo in perfetta comunione. Forte è anche il dialogo interreligioso vissuto nella quotidianità, perché la nostra istituzione è in contatto con varie comunità musulmane con cui è normale lo scambio e l’arricchimento in campo educativo. Siamo solo una piccola opera – conclude la suora – ma possibile modello di un nuovo sviluppo, di un umanesimo integrale, aperto ai valori cristiani e umani della solidarietà, della giustizia e della fraternità».

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