martedì 17 gennaio 2023
Parla Rino Germanà, poliziotto antimafia con una carriera conclusa da questore, nel mirino dei boss nel 1992
Rino Germanà

Rino Germanà - .

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«No, non avevo un conto in sospeso con lui, ce l’aveva la giustizia, perché ha seminato morte e distruzioni». Rino Germanà, grande investigatore antimafia, una lunga carriera conclusa come questore di Piacenza, conosce bene Matteo Messina Denaro, non solo per aver indagato su di lui, ma perché il boss, assieme ad altri due mafiosi di primo piano, Leoluca Bagarella e Giuseppe Graviano, tentò di ucciderlo. Era il 14 settembre 1992, sul lungomare “Fata Morgana” di Mazara del Vallo, il commando di “cosa nostra” gli sparò più volte coi kalashnikov. Doveva essere un ulteriore delitto eccellente di quell’anno terribile, era il terzo della lista dopo Giovanni Falcone e Paolo Borselllino, coi quali Germanà aveva lavorato strettamente e ancora lo faceva, soprattutto sull’intreccio mafia-politicaaffari. Indagini delicatissime che dovevano essere bloccate. Così per ucciderlo scesero in campo ben tre boss. Lui rispose al fuoco, si tuffò in mare, i mafiosi continuarono a sparare tra i bagnanti, Germanà fu ferito ma si salvò. «Non c’è un perché. Non lo so perché. Ma sicuramente non sono diverso da quelli che sono morti, non sono più bravo. Evidentemente è stato così perché così era scritto. Non è che Dio mi ha lasciato in vita perché mi vuole più bene rispetto a chi è morto. Io non ci credo. Il mistero è proprio questo. Uno muore, l’altro no. Qualcuno dirà che è stata fortuna, altri che è quasi una colpa non essere morto. Ma così era scritto». Appena ha saputo dell’arresto di Messina Denaro, ci dice, «ho subito pensato ai tanti colleghi che ha ucciso e anche al mio attentato. Lo ricordo bene. Sono molto contento che finalmente lo abbiano preso ma non c’è niente di personale. La sua cattura è l’affermazione dello Stato, il trionfo della giustizia, del bene».

Chi era e chi è Messina Denaro?

È un personaggio di primo piano, una mente raffinatissima. Ma anche capace di azioni violentissime. Pensiamo alle bombe del 1993 a Roma, Firenze e Milano, o al rapimento e uccisione del piccolo Di Matteo.

Come è riuscito a condurre una latitanza così lunga?

Sicuramente è stato abile a nascondersi ma altrettanto sicuramente è stato molto aiutato. Ricordo che su incarico di Borsellino stavo indagando proprio sui rapporti tra mafia trapanese, il suo “regno”, e la politica.

Per questo le spararono?

Nelle cose di mafia c’è sempre una componente di vendetta. A un certo punto al magistrato, al poliziotto, gliela fanno pagare ma non per uno sgarro personale. Ci può essere una componente emotiva ma lo fanno esclusivamente per l’attività compiuta di contrasto all’organizzazione criminale. Come si dice in Sicilia “ci fice danno”.

Ora Messina Denaro potrebbe collaborare?

Ora dovrà confessare, e non solo a Dio, ma anche ai “fratelli”, a partire dai magistrati. Avrebbe molto da dire.

Se lo incontrasse cosa gli direbbe?

Che ha seminato morte e distruzione. Ma a cosa è servito? Cosa gli è rimasto? Nulla. I mafiosi devono riflettere, il bene trionferà sempre. Quando mi hanno sparato ho detto “Madonna mia salvami” e mi sono salvato. Io penso che si crede di più, oppure uno si accorge cosa è la fede, dopo. Il destino ha voluto che rimanessi vivo e la vita, dopo il ’92, ha regalato a me e a mia moglie un terzo figlio, Francesco.

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