venerdì 4 dicembre 2009
Di giorno a scuola, di sera nei laboratori del tessile e nei ristoranti gestiti dalle famiglie: il caso di Macerata apre uno squarcio oscuro sui ragazzi di Chinatown.
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Otto ore sui banchi a imparare italiano e matematica, otto ore nei retrobottega di famiglia a cucire, stirare, servire. «Anni Ye era la più brava a scuola» ha detto la madre della ragazzina cinese morta a 11 anni in provincia di Macerata, in seguito a un incidente nel piccolo casolare dove si occupava della lavorazione di tomaie per le scarpe. È vero, i ragazzi cinesi hanno risultati scolastici spesso sopra la media, rispetto ad altri coetanei immigrati. Però spesso si addormentano in classe perché la sera prima hanno fatto tardi. Devono crescere in fretta: è la regola imposta dalle loro comunità, sempre più diffuse nelle città metropolitane eppure sempre più sconosciute e impenetrabili.La storia di Anni Ye ha per lo meno costretto l’opinione pubblica a squarciare il velo su un dramma che pochi, eccezion fatta per qualche addetto ai lavori, conoscono: nel nostro Paese sono 25mila i bambini asiatici, in larga parte provenienti proprio dalla Cina, sfruttati nei laboratori no stop del tessile, nelle fabbriche dove si trattano materiali pericolosi, nelle cucine dei ristoranti made in China. Nel 30% dei casi i bimbi lavorano più o meno tutti i giorni della settimana, in due casi su dieci per più di sette ore. «Dentro la comunità cinese, tutti devono partecipare e contribuire all’attività di famiglia: è una regola ben precisa, che coinvolge di frequente bambini sotto i 10 anni» racconta Anna Teselli, ricercatrice dell’Ires Cgil, cui va il merito di aver fotografato il fenomeno del lavoro minorile, su cui per anni è mancato un quadro chiaro. «C’è un altro aspetto decisivo per la comprensione del fenomeno: tutti questi bambini vanno a scuola perché rappresentano i primi mediatori culturali e linguistici delle loro famiglie». Un cinese adulto parla italiano poco e male, quasi ci fosse un rifiuto a priori nell’integrarsi, un cinese bambino sa invece che dovrà far in fretta a imparare, perché è la sua comunità a chiederglielo. «La lingua la imparano benissimo – continua Teselli – ma questa doppia vita, di giorno a scuola e di notte sulle macchine da lavoro, provoca conflitti spesso insanabili nella personalità dei bambini».Le mafie, il business e il sommersoSottotetti sfruttati come laboratori, locali per le produzioni artigianali dentro cui si ricavano letti e poltrone per le poche ore di riposo notturno: dormono così, spesso insieme, papà, mamma e figli. In modo promiscuo e in spazi ristretti, il datore di lavoro e  il baby-operaio sembrano legati a doppio filo. «Il lavoro che porta allo sfruttamento dei minori in realtà ha un valore preciso per la famiglia, prova ne è il fatto che le donne cinesi sono le vere imprenditrici di casa, anche più degli uomini» osserva la ricercatrice dell’Ires Cgil. Cinque anni dopo aver iniziato a lavorare, una ragazza cinese sveglia e abile può già aprire un’impresa. Ma quante sono le imprese cinesi in Italia? E quante di queste si macchiano di pratiche come lo sfruttamento minorile? Numeri univoci non ce ne sono, ma il caso del distretto di Prato è illuminante: le 4mila aziende cinesi iscritte alla Camera di commercio locale danno lavoro ad almeno 18mila connazionali nel settore tessile (ma c’è chi dice siano almeno il doppio) e hanno un giro d’affari di oltre 1 miliardo di euro. «Tutto sommerso, tutto senza regole» denuncia il presidente dell’Unione industriali locale, Riccardo Marini. La ricchezza prodotta esiste, ma chi la produce no, perché è invisibile e non perseguibile dal Fisco italiano, troppo lento e burocratico per inseguire aziende che nascono e muoiono nel giro di un anno e mezzo. «Dietro questo mondo, si agitano gli interessi oscuri delle mafie – afferma Teselli – che spesso hanno come obiettivo quello di colonizzare interi pezzi delle città», da Milano a Torino, da Verona  a Napoli, da Macerata a Prato.La prevenzione che non c’èLa «copertura» data ai minori che lavorano nei laboratori cinesi è così ferrea che finora è in larga parte sfuggita anche alle forze dell’ordine. A Perugia tre settimane fa è stata scoperta una fabbrica gestita da una donna che aveva alle sue dipendenze lavoratori irregolari, dentro uno spazio adibito a dormitorio e cucina. A fine ottobre la Guardia di Finanza di Prato ha arrestato un imprenditore per sfruttamento di manodopera clandestina, sequestrando 20mila metri quadri di tessuto Louis Vuitton contraffatto, mentre quattro settimane prima a Milano nell’ambito dell’operazione «White China» 14 persone sono state denunciate per ricettazione, contraffazione e sfruttamento. Di bambini all’opera, però, nessuna traccia.L’attività di contrasto non manca, «ma a monte servirebbe più prevenzione – spiega Teselli – Le sanzioni amministrative vengono pagate e poi si ricomincia come prima». L’agenda delle cose da fare per combattere lo sfruttamento minorile, non solo cinese, è lunga ed è stata messa a punto da 86 associazioni, tra cui Caritas, Agesci e Save the Children, in occasione dell’ultima Conferenza nazionale per l’Infanzia: si va da un tavolo di coordinamento a interventi concreti fatti coinvolgendo la società civile. Oltre a un rafforzamento dei controlli sui laboratori degli irregolari, è necessario un vero e proprio piano d’azione. Che chiami in causa anche la scuola, ovviamente, primo banco di prova per capire se gli alunni-modello nascondono nei loro occhi a mandorla piccoli drammi che non possono raccontare.
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