sabato 19 marzo 2022
Al varco di frontiera con la Moldavia, gli operatori della ong assistono e curano le migliaia di persone in fuga dalla guerra
Colonne di profughi ucraini al confine con la Moldavia

Colonne di profughi ucraini al confine con la Moldavia - Intersos

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Dall’inizio del mese opera al confine tra Ucraina e Moldavia un team di Intersos, 35 persone tra medici e operatori di protection, in gran parte italiani, ma anche moldavi, rumeni, olandesi. Con due unità mobili e un grande tendone.

A coordinarli è Alessandro Verona, referente per l’Europa dei progetti sanitari dell’Ong, rientrato a fine gennaio dall’Afghanistan dove per due mesi è stato il coordinatore medico della missione nelle province di Kandahar, Kabul e Zabul.

Ora si trova a Tudora e Palanca, i due principali luoghi di ingresso per i profughi provenienti dall’Ucraina. “Come il sangue ha lo stesso colore, così lo ha la sofferenza. L’essere umano nel momento della difficoltà si comporta atavicamente allo stesso modo. Scappare da una situazione è uguale per tutti, i bisogni essenziali, primari sono uguali per tutti. Cambiano solo i volti. La prospettiva invece è diversa perché qui c’è un continente, c’è un’Unione Europea che dovrebbe tutelare i diritti di queste persone, non siamo nel nulla, l’Afghanistan invece è nel nulla”.

Entrati nel Paese tra il 28 febbraio e l’1 marzo, sono qui in sostegno del governo. “Abbiamo subito cercato una relazione molto stretta, in particolare col ministero della salute. Siamo accreditati col ministero per operare nella frontiera di Tudora, nel bus station di Palanca, dove convergono tutti gli autobus, e dove la gente aspetta per fuggire all’interno del Paese o, soprattutto, in Romania. Poi abbiamo una partnership con l’Unhcr per la protection”.

La media in un giorno è di cinquanta visite. Il 30-40% sono bambini, il resto soprattutto donne. Ci sono anche africani, cinesi e rom, soprattutto dell’Azerbaigian. Anche loro fuggono. “Assicuriamo assistenza alla salute. Molti scappano senza medicine. Partono diabetici e ipertesi scompensati, problemi di tiroide, ricordiamoci che siamo in Ucraina, la terra di Cernobyl, non in un posto qualsiasi. Ci sono persone che facevano cure continuative e che hanno bisogno di continuità, come i bambini oncologici. Casistiche di enorme vulnerabilità. Se c’è la rottura di un sistema, tutto il sistema di vulnerabilità deve essere ricostruito”.

Ma si vuole andare oltre. “La sfida è fare un progetto senza sapere cosa succederà, perché in alcuni giorni il flusso è quasi zero, in altri migliaia di persone. Così il progetto deve adattarsi di giorno in giorno. Nelle risposte e territorialmente. E’ uno sforzo enorme con la grande preoccupazione di Odessa che è a 50 chilometri. Qui le cose potrebbero mettersi molto male”.

Il team non deve affrontare solo problemi sanitari. “Molti hanno una sofferenza mentale incredibile, i bambini in particolare, che non parlano più. Il trauma di lasciare la casa, di lasciare tutto, in fretta, tocca a tutte le persone. Madri coi figli e senza compagni, anziani estirpati dalla propria terra. Un trauma psicologico molto forte che si riflette sulle categorie più vulnerabili. E’ molto doloroso vedere così tante persone piangere. Scene che vediamo nelle lunghe file per salire sugli autobus. E a operare siamo in pochi”.

E tutti chiedono le stesse cose. “Coprire i bisogni immediati. Le persone scappano, vogliono spostarsi il più velocemente possibile in un luogo sicuro. Nelle fughe i bisogni sono quelli primari. Cose forse molto banali ma in queste condizioni dobbiamo soprattutto evitare rischi. In Romania ci sono tante notizie di persone che sono finite in mano ai trafficanti, persone che propongono misteriosi passaggi. Le persone che hanno paura sono fragili e vanno protette”. Inoltre “c’è chi viene perché ha uno stato d’ansia, mi è capitato più volte, in particolare donne. Per questo non siamo solo sanitari ma anche operatori di protection. Non basta togliere il mal di testa se uno ce l’ha per motivi specifici, l’ansia non richiede un approccio farmacologico, ma risolvere le problematiche che sottendono l’ansia stessa”.

In tutti c’è “la reazione “combatti o scappa” e non si ha una valutazione razionale. Come gli animali si nascondono sotto un mobile, così gli umani quando hanno paura cercano un posto sicuro. E fin quando non sono in un posto sicuro non c’è elaborazione ma disperazione, e bisogno che altri ti aiutino”. Tante storie. Alcune colpiscono di più.

“Per alcuni giorni sono rimasto a dormire nel nord nel Paese, in albergo. C’era una bambina che correva e giocava in un corridoio come se fosse in una gita. La mamma, molto giovane, la stava portando a Napoli, ma era preoccupata che i documenti non bastassero. La situazione più difficile è quella dei bambini, così piccoli da non rendersi conto in alcuni casi, così riuscono a vivere quel momento come un gioco, ma ho visto anche bambini che non sorridevano, che avevano una ferita profonda. In quella bambina c’era la mancanza di consapevolezza, che è una benedizione, e invece era tutta interiorizzata dalla madre che piangeva cercando di non farsi vedere dalla figlia. Ma, ripeto, ci sono tanti bambini che capiscono e che non hanno le spalle abbastanza grandi per sostenere tutto questo”.

Ma c’è anche altro e il “non visto”. “L’altra immagine tremenda è quella degli anziani e disabili che tentano di mettersi in salvo. Mentre quelli con meno risorse son quelli che non vediamo. L’immagine più terribile è quella che io non ho visto, l’immagine più bella che si può vedere invece è che non ci sia più tutto questo. Speriamo che questi progetti diventino inutili e che tutto si risolva a breve. E che nessuno debba soffrire più, perché questa è una sofferenza devastante, per chi scappa e per chi accoglie”.

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