venerdì 18 maggio 2018
Parla suor Gabriella Bottani, a capo della rete anti tratta Talitha Kum. 21 milioni di persone vivono in condizioni di schiavitù, cosa si può fare
Il Papa con suor Gabriella Bottani, coordinatrice della rete internazionale “Talitha Kum”

Il Papa con suor Gabriella Bottani, coordinatrice della rete internazionale “Talitha Kum”

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Ragazze costrette a vendere il proprio corpo per paura di riti voodoo, uomini e donne che lavorano come domestici, o ancora in campi e fabbriche con turni massacranti. Altri che finiscono nel racket dell’elemosina. Sono questi alcuni volti dei migranti che, anziché impoverirci, fanno girare economie corrotte e sempre più strumentalizzate da fake news, odio e disinformazione. Domani, sabato 19 maggio, si svolgerà a Roma nella sede di Talitha Kum, in piazza di Ponte Sant'Angelo 28, dalle 9 alle 14 l’incontro promosso da Avvenire Lazio Sette per parlare di migranti e tratta. Parla suor Gabriella Bottani, coordinatrice della rete internazionale “Talitha Kum”, tra i relatori della conferenza.

Rispetto ai tempi di Santa Bakhita, divenuta poi il simbolo della Giornata contro la tratta, oggi il fenomeno è più camaleontico. Quali sono le forme moderne di schiavitù?

Quando parliamo di schiavitù in molti pensano che questa piaga sia stata sconfitta. E invece non è così, anzi. Ancora oggi sono 21 milioni le donne, gli uomini e i bambini “schiavi” in tutto il mondo. Di certo, le dinamiche ora sono diverse e, a mio avviso, profondamente legate a una “non cultura”, vale a dire alla mancanza di valori da parte di una fetta di società. Si usano vite a scopo di lucro, e questo vale per lo sfruttamento sessuale ma anche lavorativo se, ad esempio, pensiamo ai lavori forzati nei settori dell’edilizia, dell’allevamento, dell’agricoltura o dell’estrazione di minerali. C’è poi lo sfruttamento legato all’accattonaggio, gestito da organizzazioni criminali, che talvolta obbligano anche a commettere piccoli furti o a entrare a far parte di gruppi armati, come nel caso dei bambini soldato. Anche i matrimoni forzati sono veri e propri atti di compravendita di bambine o adolescenti. E con la

mobilità globale alcune pratiche che una volta erano ristrette solo ad alcune aree geografiche ora si sono estese anche ad altri Paesi».

In che modo le politiche di frontiera riguardano la tratta?

«Oggi più che altro ci sono dei blocchi all’immigrazione ma, a mio avviso, mancano politiche efficaci per regolamentare l’afflusso di migranti. Questo porta sicuramente a un aumento del contrabbando illegale delle persone, che poi accedono ai nostri Paesi senza avere un documento ufficiale. E di conseguenza favoriscono le dinamiche dello sfruttamento lavorativo e sessuale di migliaia

di migranti, sia nella fase di trasporto, sia una volta arrivati a destinazione».

Qual è stata la sua prima esperienza di contrasto alla tratta?

«A Fortaleza, in Brasile, nel 2009 ero responsabile del nucleo antitratta. E uno dei primi casi di sfruttamento con i quali mi sono dovuta confrontare è stato all’interno di un centro massaggi. Durante l’irruzione trovarono un’adolescente, di circa 13 anni, sfruttata sessualmente dalla padrona di questo centro a causa di un debito che aveva contratto per poter lavorare lì. Ciò che mi colpì fu il fatto che la ragazzina implorava di non essere liberata, perché non aveva delle reali alternative e non voleva tornare nella casa d’origine, dove peraltro aveva sofferto altre situazioni di abuso sessuale. Dopo otto anni a Fortaleza, prima di arrivare a Roma, sono stata a Porto Velho, al confine con la Bolivia. E l’impressione che ho avuto lì, ma anche negli altri 70 Paesi in cui è attiva oggi la nostra rete di religiose, è che il fenomeno cresce anziché diminuire. O forse cresce anche perché le persone diventano più sensibili e riescono a parlarne di più».

Cosa si può fare contro lo sfruttamento?

«Una cosa che ci sta molto a cuore è l’empowering delle ragazze. Per questo siamo attive nelle regioni di origine con iniziative di sensibilizzazione e prevenzione. Vogliamo aiutare le persone a conoscere i propri diritti e il proprio valore di modo che, anche di fronte a future situazioni di tratta, sia più facile per loro chiedere aiuto rispetto a persone che arrivano senza questa preparazione.

E poi ci sono diversi progetti di reintegrazione socio-economica, ad esempio legati al microcredito o all’assegnazione di borse di studio. Di certo, non tutti sono disposti a fare un percorso di questo tipo. Sono tante le catene da cui liberarsi: la violenza subita, il voler mantenere un certo status, la pressione delle famiglie che chiedono soldi. Il percorso di libertà è un lungo processo che deve essere considerato nella sua complessità, perché ognuno di loro porta una storia diversa».

“Talitha Kum” riprende un’espressione del Vangelo che significa: “Fanciulla, alzati”. Secondo lei, chi ha vissuto esperienze così dolorose può rialzarsi e recuperare la gioia di vivere?

«Nel caso dei bambini, credo che la chiave per una concreta possibilità sia quella di accogliere e lasciarsi accogliere, così come loro sanno fare. Bisogna mostrare con gesti concreti che ci si interessa per loro, che per noi non è uguale il fatto che ci siano o meno, che stiano bene o stiano male, ed essere in grado di dire: “per me sei importante così come sei e anche come potrai essere”. Da lì possono nascere dei cammini che sorprendono. Poi, sono sempre più convinta che questo invito ad alzarsi non sia rivolto solo a una persona ma a noi come società, perché la tratta è una grave denuncia alle dinamiche di un’economia di

mercato, a relazioni tra persone che sono profondamente malate e segnate da interessi troppo marcati dall’economia e che ci stanno distruggendo. “Talitha Kum” è un cammino di libertà che dobbiamo fare insieme e questo alzati è dedicato a tutti noi».

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