venerdì 30 ottobre 2020
Per invertire la rotta necessarie settimane. Ecco cosa ci ha insegnato il lockdown
Numeri alla mano. Serve tempo per frenare i contagi
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Trentaseimila nuovi positivi, 3mila pazienti in terapia intensiva, 280 morti in un giorno: sono i dati di mercoledì sull’epidemia in Francia, che ha appena decretato un nuovo lockdownnazionale. Altrimenti, ha avvertito il presidente Macron, a metà novembre avremo 9mila pazienti in rianimazione e nei prossimi mesi «400mila morti in più».

Sono dati drammatici e angoscianti. Ma quanto è distante la Francia dall’Italia? Le chiusure “part time” messe in campo dal nostro governo riusciranno a frenare il dilagare dell’epidemia? O non saremo anche noi presto costretti a confinamenti mirati o a un nuovo blocco come totale come a marzo? Bombardati dalle notizie quotidiane, dalle cifre a grappolo e da polemiche spesso sterili si fa fatica a mettere in fila la forza dei numeri.

Ma non serve essere veggenti e nemmeno dei matematici provetti per azzardare qualche stima su quelle che potrebbe accadere, ricordandoci di quanto già ci è successo in primavera. Come gli esperti sottolineano l’epidemia ha assunto da qualche settimana un andamento esponenziale, con un raddoppio dei contagi ogni 7-10 giorni. Non era così fino a settembre. Quando la marea del coronavirus già saliva, ma in modo lento e costante. Il primo agosto in Italia c’erano in tutto circa 12.500 positivi al Covid. Il primo settembre erano diventati, 26.700, il primo ottobre 52mila. Il tempo di raddoppio era di circa un mese.

Nelle terapie intensive i posti occupati sono saliti da 107 (1 settembre) a 280 (30 settembre). Poi l’accelerazione, quasi improvvisa, che ha colto il Paese incredulo e impreparato dopo la sbornia estiva delle discoteche piene e del tutto esaurito in spiaggia. Una escalation partita giusto un paio di settimane dopo la riapertura delle scuole e delle attività pomeridiane di studenti, giovani e meno giovani.

Con autobus e metro pieni all’ora di punta e i bar a quella dell’aperitivo. Così è partito l’effetto valanga: dai 1.800 nuovi positivi del 30 settembre si salta ai 3.600 del 7 ottobre, ai 7.300 del 14, ai 15mila del 21, ai 25mila del 28. Il tempo di raddoppio da mensile diventa settimanale: anche se negli ultimi sette giorni, forse per effetto delle mascherine obbligatorie e di una maggiore prudenza, l’incremento è comunque rallentato: da +100% a +80% circa. Passato qualche giorno lo stesso trend si registra nel numero dei deceduti: 167 nella prima settimana di ottobre, poi 228 (+46% circa) quindi si va al raddoppio: 543 morti nella terza settimana, 1.073 nella quarta. I ricoverati totali per Covid esplodono a loro volta dai 3mila di inizio mese ai quasi 15mila del 28 ottobre.


Il raddoppio dei casi da mensile è diventato settimanale, ma ora sta già rallentando. La previsione di Gimbe: 30mila ricoveri l’8 novembre

Quelli in terapia intensiva balzati dai 530 del 14 ottobre ai 926 del 21 ai 1.536 del 28. Questo fino a mercoledì. Ma cosa accadrebbe se questi livelli di crescita proseguissero così? Se il trend di aumento settimanale restasse dell’80%, i nuovi positivi dai 140mila casi degli ultimi sette giorni arriverebbero a 800mila nella settimana dal 12 al 18 novembre, ovvero più di 100mila al giorno. Ma anche ipotizzando un rallentamento della crescita al +50%, si arriverebbe comunque in 20 giorni a 470mila nuovi casi settimanali e a un numero complessivo di positivi nel Paese superiore al milione già a metà del mese prossimo (oggi sono circa 300mila), come stima una ricerca delle Università di Milano e Pavia.

A questa stessa velocità i ricoveri totali salirebbero da 15 a 50mila in sole tre settimane. I posti in terapia intensiva schizzerebbero a 5mila (più che durante il lockdown) doppiando quel 30% dei posti disponibili (oggi 6.900) considerata la soglia di allarme per la tenuta del sistema sanitario.

Applicando la stessa formula, gli oltre 1.000 morti degli ultimi sette giorni diventerebbero in un mese 5mila la settimana, con una media di 600-700 al giorno. Sono numeri sostanzialmente confermati dal monitoraggio settimanale diffuso ieri dalla Fondazione Gimbe, che parla di un’epidemia «fuori controllo senza immediate chiusure locali», e stima oltre 30.000 ricoveri già l’8 novembre. La speranza del governo era che i trend dell’epidemia potessero essere corretti dal contenimento sociale e dalle chiusure già disposte. Ma è meglio non farsi troppe illusioni: anche ammesso che le misure fossero sufficienti – e secondo molti esperti non lo saranno – ci vorrà tempo perché si producano effetti duraturi sulla curva epidemica. Basta rileggere l’andamento del contagio subito dopo l’avvio del lockdown il 9 marzo scorso. Quel giorno c’erano 733 persone in terapia intensiva, quasi 1.800 nuovi contagi e “solo” 97 morti. Una situazione da allarme rosso.

Ma il peggio doveva ancora arrivare. Il top dei nuovi contagi si registrò infatti il 21 marzo (6.500 casi), le terapie intensive raggiunsero il picco di occupazione (quasi 4.500 ricoverati) il 26 marzo, mentre il giorno dopo, 27 marzo, fu l’infausta data del record dei decessi: persero la vita 969 persone. In sostanza l’epidemia galoppò a tutta velocità per altri 20 giorni circa, nonostante le misure draconiane messe in campo. A fine marzo la curva cominciò a rallentare ma ci volle un altro mese per registrare una sensibile caduta degli indicatori. Il numero dei positivi totali continuò a salire fino al 20 aprile, quando si raggiunse quota 108mila. Quel giorno i nuovi casi erano ancora oltre 2.000, con ben 454 morti e 2.500 ricoverati in terapia intensiva.

Numeri che ci ricordano come per fermare un treno che viaggia a tutta velocità serve tempo, oltre che buoni freni. Nella scorsa primavera il lockdown fu un freno potente ma non potè comunque evitare una lunga scia di sofferenza e dolore. Non è difficile immaginare quello che sarebbe successo senza interventi. E cosa potrebbe ancora accadere.

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