venerdì 29 marzo 2024
La memoria del primo viaggio in Grecia negli anni dell'università e, da bambina, del suono delle campane di Padova, testimoni festose che i morti non sono morti per sempre
La processione del silenzio, a Guadalajara in Messico

La processione del silenzio, a Guadalajara in Messico - Ansa

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«Splendette a mezzogiorno/ il ramo viola di sicomoro:/ usciva dal cuore del Sabato Santo/ la donna che me l’ha dato»: mi tornano e ritornano in mente ogni anno, ossessivamente, questi semplici versi che ho scritto tanto tempo fa, dopo il mio primo viaggio in Grecia. E insieme mi si affollano al cuore le memorie di quel giorno pasquale a Nauplia, quando ero una studentessa appassionata di grecità e stavo per compiere diciannove anni; ma ancora non so perché mi venne da chiamarli così, quei meravigliosi fiori viola...
Eravamo un gruppo di universitari di Padova, arrivati nell’antica prima capitale del Paese dopo un paio di giorni ad Atene, pronti per il Peloponneso e le sue meraviglie. La nostra corriera era vecchiotta e ansimante, noi entusiasti, sempre e comunque. Nevicava, una neve leggera, primaverile. Arrivammo la sera e finimmo in un ostello piuttosto primitivo, ma – mi dissi - eravamo quasi in Arcadia, nel luogo dei pastori e delle ninfe silvestri...
La mattina dopo la guida però ci propose – prima delle antichità previste e del teatro di Epidauro – di andare a vedere i momenti conclusivi dei riti della Pasqua ortodossa nella cattedrale: ma quando arrivammo sul piazzale le cerimonie erano finite e le grandi porte si stavano giusto aprendo.
Una folla colorata e gioiosa si riversò all’esterno, e subito tutti si accorsero della nostra presenza. All’epoca i turisti erano pochi, e solitamente estivi, sicché il nostro gruppo spiccava: noi ci sentivamo spaesati e un po’ a disagio, ma la folla ci circondò festante agitando rami fioriti e regalandoli anche a noi, che condividessimo la loro felicità: “Cristo è risorto, davvero è risorto”, gridavano. A me parve in quel momento di percepire per la prima volta un poco del senso della Pasqua, cioè della parola “Resurrezione”: e ancora mi ricordo che, improvvisamente, sentii vicini i miei amati nonni, l’armeno Yerwant e Carlo l’italiano, come un sussurro lieve, un sospiro alle spalle che mi riscaldò nel cuore profondo.
E adesso riemerge dal fondo della memoria un altro momento di gioia pasquale, molto più antico, infantile: ma così forte, assoluto direi, che me ne rimase l’impressione, allora, per molti mesi – e oggi potrei aggiungere, per sempre. Avevo sette o otto anni; eravamo ritornati in città dopo aver passato gli ultimi due anni di guerra - da sfollati - nel paese di Dolo sulla riviera del Brenta, e abitavamo nella casa del nonno perché la nostra era stata bombardata. Nonno Yerwant era morto da poco, ma zia Enrica ci ospitava tutti.
Era la mattina del Sabato Santo verso le undici, e non so perché io mi trovavo vicino alla chiesa di santa Sofia, la nostra parrocchia, dal lato verso la strada. C’era silenzio quel giorno, tutt’intorno a me; e pochi passanti frettolosi andavano per le loro faccende. Ma ecco, in quel preciso momento cominciarono a squillare le campane di tutte le chiese di Padova. Invadevano lo spazio coi loro suoni festosi: una rispondendo all’altra, una sovrapponendosi all’altra mi attraversavano con un’onda sonora che riempiva gli orizzonti, in una sinfonia di suoni gioiosi e potenti che mi chiamavano, mi raccontavano di quella Resurrezione che era davvero avvenuta – duemila anni fa, ma ancora e per sempre.
Sentii che era vero che nonna Antonietta (a cui dovevo il nome, e che mi aveva lasciato la sua bellissima collana di coralli rossi, purtroppo sequestrata da mia madre) e nonno Yerwant (che mi aveva portato con sé alla basilica del Santo per andare a toccare la tomba di Antonio, proprio come una persona grande) non erano morti del tutto, non erano diventati resti inutili e polverosi: c’erano ancora e da qualche parte aspettavano davvero la Resurrezione, come mi avevano spiegato. E con loro aspettava nonno Carlo l’alpino, che raccontava le storie della Grande Guerra e aveva costruito un dirigibile.
Le campane continuavano a suonare, e io mi sentii invadere da una felicità così intensa che dovetti mettermi a correre. I suoni precedevano i miei passi e mi rimbombavano nelle orecchie; io correvo, correvo, seguendo quel ritmo meraviglioso che corrispondeva ai battiti del cuore e dei piedi sul selciato: mi pareva di stare iniziando a volare verso di loro; e li avrei trovati tutti in fondo alla via, che è quella dove abito ancora, e va diritta verso ovest e verso il tramonto.
Oggi, lo so bene, non è più così: il Sabato Santo è il giorno muto, il giorno del cordoglio. Perché è vero che Lui è risorto il terzo giorno, e che ci fu l’intervallo di incredulità e di oscura tristezza fra la tragedia della Passione e la gioia della Resurrezione. E io credo che è il giorno in cui, con la forza della vita che scorre dentro ognuno di noi, dobbiamo scendere nel lago profondo del cuore, scartare cose inutili e misurarci con quella certezza di morte che oscuramente vi si annida. Trovandovi i semi della gioia che esploderà il terzo giorno, e che Gesù il Cristo ci offre col suo corpo martoriato di uomo morto, ma custode della Resurrezione che sarà anche la nostra.

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