sabato 24 novembre 2018
Il professore si sono sparati titoli “noir”, servivano verifiche tempestive. «Una pessima storia per il giornalismo italiano. Vedo soggezione nei confronti del clima culturale dominante»
Mario Morcellini: «Più responsabilità da chi racconta»
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Mario Morcellini ha appena concluso un convegno organizzato per i vent’anni dell’Agcom, l’Autorità garante delle Comunicazioni. «Mi colpisce sempre dover intervenire quando si deve parlare di patologie che riguardano la libertà di stampa» esordisce quando gli si chiede un parere sulla vicenda che ha riguardato il ritrovamento delle ossa in Nunziatura. In gioco ci sono i delicati equilibri informativi, le inchieste giudiziarie e la domanda di verità di due famiglie. Sullo sfondo, l’ennesima campagna cavalcata da una parte del sistema dell’informazione che non ha aiutato a ca pire. Anzi, ha alzato altre cortine fumogene sul destino di due donne. «Altro che storytelling, come si usa dire oggi. Siamo di fronte a un telling senza storia. Fin dall’inizio le illazioni e le ipotesi sono diventate titoli – riannoda il filo della storia Morcellini, professore di Comunicazione e già preside della Facoltà di Scienze della Comunicazione alla Sapienza di Roma –. Non c’è stata nessuna verifica tempestiva, anzi. Si sono sparati titoli noir, ma così facendo le vittime rischiano di morire due volte».

Come spiega questo ennesimo cortocircuito, che continua a confondere l’opinione pubblica e impedisce di arrivare con chiarezza alla verità?
Il primo elemento che mi sembra di intuire, a consuntivo di questo mese, è stata una sorta di soggezione al clima culturale dominante. Non c’è stato alcun controllo a priori, penso che almeno si sarebbe potuto aspettare un giorno nel dare la notizia sul ritrovamento delle ossa in Nunziatura. È stato interessante poi seguire la parabola mediatica compiuta dalla notizia nei giorni successivi.

Perché?
Perché dopo aver letto titoli ai limiti dell’inciviltà informativa, abbiamo assistito a un inusuale silenzio sul tema per qualche giorno. È stato un piccolo segnale di ravvedimento, ormai tardivo. Un ripensamento, cui non a caso è succeduto poi il diffondersi sussurato di un’altra notizia: quella secondo cui l’identità delle ossa non era più certa e, soprattutto, che non si trattava in ogni caso né di Emanuela Orlandi né di Mirella Gregori. Per il giornalismo di carta stampata, è stata una pessima storia.

Come può reagire un lettore di fronte a tutto questo?
Penso che un lettore, anche dei più fedeli, sappia benissimo che il suo giornale può sbagliare e insieme che ha tutte le possibilità per autocorreggersi. C’è bisogno però che i giornalisti esercitino compiutamente la propria responsabilità. È evidente che una vicenda del genere rischia di delegittimare un’intera categoria. Sono mancate sia capacità di inchiesta sia il necessario autocontrollo da parte delle redazioni. Non ce n’era bisogno in tempi in cui già dominano i social networke una certa politica abituata ad usare con disinvoltura le logiche della comunicazione.

Perché parlava di soggezione a un nuovo clima culturale?
Perché lo spirito del tempo ha messo nel mirino tutte le istituzioni che in sé riassumono cultura, tradizione e forza del passato. Se a questo aggiungiamo la solita vena di anticlericalismo sottocutaneo tipica di una parte di questo Paese, viene fuori il Circo Barnum cui abbiamo assistito in quest’ultimo mese.

Resta il dolore di due famiglie che ancora chiedono verità...
Le famiglie coinvolte meritano ovviamente un’altra posizione in questo racconto. Va rispettato il loro dolore e nessuno può permettersi di urtare o eccitare la loro sensibilità. Per questo dico che, in piccola misura, ciò che è successo è stata una piccola costruzione mediatica che chi fa buon giornalismo poteva tranquillamente evitare.

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