domenica 7 marzo 2021
L’errore più grande: non pensare al futuro dei nostri figli
Un parcogiochi di Milano chiuso per il Covid

Un parcogiochi di Milano chiuso per il Covid - Fotogramma

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«L’Italia non è un Paese per genitori» è una frase che ritorna spesso quando ci si ritrova a commentare i bollettini che certificano la diminuzione delle nascite e la flessione del tasso di fecondità, quando si pubblicano nuovi rapporti sulla disponibilità di servizi per l’infanzia che fotografano la carenza cronica di strutture educative rivolte ai bambini, quando vengono prodotti rapporti sull’avaro trattamento fiscale riservato alle famiglie italiane rispetto ai Paesi europei che hanno saputo interpretare meglio la sfida della modernità.

«L’Italia non è un Paese per genitori» è un ritornello al quale abbiamo fatto l’abitudine, il tormentone che anche un algoritmo è capace di abbinare in modo appropriato nel contesto corretto. La crisi sanitaria scatenata dal Covid sta ora facendo scoprire nuovi codici e linguaggi, il virus muta pericolosamente e a mutare sono anche i modi di dire alla luce dell’esperienza: la pandemia sta tragicamente dicendo che la nostra condizione è ben altro dal non essere un Paese 'per' genitori: no, la nostra condanna è il vuoto del ruolo genitoriale a livello personale, culturale, sociale, politico.

La realtà è che non siamo un Paese 'di' genitori. Mancano, sono finiti, o meglio sono totalmente scomparsi dal discorso pubblico. Discende tutto da qui il sacrificio dei bambini e dei ragazzi che a distanza di un anno stiamo di nuovo allestendo nel momento in cui chiudiamo le scuole prima di altro, negando ai giovani e ai più piccoli il diritto di crescere sani in senso molto più ampio, privandoli di quel diritto alla salute per il quale stiamo invece combattendo in nome del principio di umanità a beneficio di tutte le generazioni.

Che cosa significa essere un Paese senza genitori? Non è solo trovarsi in deficit di quella capacità empatica che dovrebbe fare comprendere come un contesto in cui tra preadolescenti e adolescenti sono in drammatico aumento stati depressivi, crisi di ansia, atti di autolesionismo o tentativi di suicidio rappresenti un problema sanitario e sociale grave e non inferiore ai danni diretti della pandemia; non è solo mancare della capacità di valutare quanto potrà gravare su una generazione e sulla società che abiteranno gli adulti di domani l’aver perso mesi e anni di studio e di relazioni in classe, o l’aver visto da piccoli formarsi una frattura gigantesca nel terreno delle opportunità tra i più e i meno fortunati; non è solo lasciare passare il messaggio che lo studio e l’apprendimento sono la prima cosa sacrificabile; non è solo vivere nell’incapacità di considerare quale reazione potrà produrre in una giovane mente la consapevolezza di essere stati collocati nel ruolo di agnello sacrificale in una tragica selezione tra generazioni.

È qualcosa di più. Un Paese senza genitori è un Paese in cui le persone, che abbiano figli oppure no, si alzano e incominciano a versare sudore e sangue dimenticandosi del senso ultimo di questa fatica e degli unici soggetti cui dovrebbe essere rivolta affinché abbia un senso. Cosa stiamo facendo e perché? E soprattutto per chi? Un Paese senza genitori è un Paese in cui il sacrificio degli adulti serve a ripagare una soddisfazione individuale, a salvare la propria 'pelle', non a innaffiare e concimare il terreno nel quale crescono i bambini, i giovani, i figli. La loro stabilità e la loro sicurezza, come aveva intuito Péguy indagando i fondamenti della speranza, deriva tutta dal nostro vivere per loro.

E qual è in fin dei conti il destino di un genitore se non prepararsi a morire per chi è venuto al mondo? Le cifre della pandemia invitano ad essere prudenti, severissimi, viene rimarcato a ogni osservazione in difesa dei minori. Già, ma quali cifre? Quelle che hanno permesso riaperture di tutto, assembramenti, folle festanti in locali chiusi? Le cifre che sono state sporcate da errori marchiani, inquinate da tamponi addomesticati o da fermate improvvise nel tracciamento del virus per lucrare un colore più tenue e conquistare consensi regionali? O le cifre che collegano meccanicamente l’abbassamento delle difese e delle mascherine affidandosi a indicatori inadatti allo scopo? Forse allora le cifre che impongono ai piccoli 'untori' innocenti le lezioni al monitor mentre il grosso degli uffici resta impermeabile allo smart working? Oppure quelle che giustificano adesso la reclusione di bambini che normalmente vanno a scuola a piedi, mantengono le distanze in classi dalle finestre aperte tutto l’inverno, scudati da mascherine, e hanno solo bisogno di fare più lezioni in presenza, più sport, più passeggiate fuori città, se non altro come ristoro morale?

Perché c’è una cosa che il genitore in un Paese che non è di genitori impara presto a considerare l’unica cifra valida, e garanzia di salvezza: gli occhi di un figlio quando scopre che la scuola richiude, dato che i grandi hanno sbagliato ancora a fare di conto, eppure non vengono bocciati.

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