mercoledì 22 novembre 2017
Il caso di una coppia che ha fatto ricorso all'utero in affitto in India. Di chi è figlio quel bimbo? La Corte Costituzionale si dovrà pronunciare. il criterio di verità e l'interesse del minore
(Siciliani)

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La famiglia è ancora quella fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, così come previsto dalla Costituzione, oppure tale si può ritenere qualsiasi unione caratterizzata unicamente da sentimenti e volontà (di stare insieme, di avere figli...)? Anche su questo si è discusso ieri in Consulta, analizzando quella “vicenda complessa” – così l’ha definita il suo giudice relatore, Giuliano Amato – di una coppia milanese che aveva fatto ricorso in India alla maternità surrogata, e che – al rientro in Italia – si era dovuta confrontare con il divieto imposto in patria dalla legge 40.

Questa la prima domanda giuridica fatta propria dall’ufficiale di stato civile del Comune e dal tribunale per i minorenni: di chi è figlio quel bimbo? Di entrambi i membri della coppia che l’ha “ordinato”? Oppure solo dell’uomo, unico dei due a fornire il proprio materiale genetico? Ed ecco la risposta della Corte d’appello meneghina, a conferma di una precedente sentenza del tribunale minorile: secondo l’articolo 263 del codice civile, per cui “il riconoscimento (di un minore, ndr ) può essere impugnato per difetto di veridicità”, quel bimbo è figlio solo dell’uomo. Ma attenzione: ritenendo questa norma lesiva del piccolo, nella misura in cui a detta della corte territoriale non consente di valutare la sua operatività in relazione al suo superiore interesse, i giudici di secondo grado ne hanno ravvisato un sospetto d’incostituzionalità. E per questo l’hanno posta all’esame della Consulta, insieme – per gli stessi motivi – al divieto di maternità surrogata imposto come detto dalla legge 40 del 2004.

Così, ieri, in aula non c’era solo il legale della donna (che vorrebbe figurare come madre nel certificato di nascita del piccolo). A sostenerne integralmente le posizioni pure il curatore speciale del minore, che nel precedente giudizio aveva sì impugnato il riconoscimento fatto dalla “madre d’intenzione”, ma solo per cercare di dimostrare come l’articolo 263 del codice civile lo obbligava a far ciò fosse contrario ai principi della nostra Costituzione. Questa la sua posizione: nei rapporti genitoriali, oggigiorno, il criterio di verità deve cedere a quello del supremo interesse del bimbo. Sul presupposto che “è cambiata la famiglia, è cambiato il senso di famiglia”, ed esistono “nuove leggi” (velata ma chiara l’allusione alla “Cirinnà” così come “recenti pronunce in tema d’adozione” (omogenitoriali). Ma di fronte a questa propettiva è giunta ferma la replica dell’Avvocatura di Stato: «Non stiamo facendo una battaglia di retroguardia – ha esordito Chiarina Aiello –, ma semplicemente presentando l’interpretazione corretta dell’articolo 263»: una norma che «tutela il minore proprio perché posta a salvaguardia della naturalità della famiglia». Al contrario, ha argomentato l’avvocato di Stato, si porrebbero profili d’incostituzionalità se si consentisse – come richiesto da curatore e “coppia committente” del piccolo – che questa norma funzionasse solo con riguardo all’interesse del minore: «Pensiamo alle conseguenze dell’eventuale mancato disconoscimento che si genererebbero nei confronti degli eredi, o anche a quelle affettive che si produrrebbero su altri minori inseriti in quella stessa famiglia... ». E a tutto voler concedere, ha concluso Aiello, lo stesso articolo recita «può» disconoscere, non «deve», essendo già ciò sufficiente a consentire una ponderazione di tutti gli interessi in gioco e a fugare così la proposta eccezione di legittimità costituzionale. La Consulta si pronuncerà nelle prossime settimane, consapevole – come ha ricordato ieri Amato – che la «maternità surrogata, nel nostro ordinamento, riscontra un disvalore molto forte».

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