martedì 17 marzo 2020
Parla l'ecomista: impediamo che tutto crolli su chi è in prima linea, il Terzo settore venga coinvolto. È in crisi il mito dell’invulnerabilità. Ora vanno salvaguardate le relazioni sociali
L'economista Stefano Zamagni

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Non tenete il Terzo settore ai margini dell’emergenza. Usate l’esperienza di migliaia di volontari attivi negli ospedali e nel campo della sanità, valorizzate con tutte le precauzioni del caso la conoscenza di tante persone che, a partire dal mondo delle associazioni impegnate nel servizio ai malati, sono disposte a dare una mano. «È in gioco un patrimonio di relazioni, che è fondamento della coesione nazionale» spiega l’economista Stefano Zamagni, voce storica dell’economia civile e del non profit. «Dopo aver eseguito gli ordini impartiti dalle autorità, ora è necessario coinvolgere i corpi intermedi. Mi rivolgo direttamente al governo: lo Stato non può fare tutto da solo, le Regioni vacillano sotto il peso del contagio. Impediamo che tutto crolli sulle spalle di chi è adesso in prima linea» spiega il professore, che dal 27 marzo 2019 è presidente della Pontificia accademia delle scienze sociali, su nomina di papa Francesco.

Intanto gli appelli e le mobilitazioni alla solidarietà si moltiplicano, in questi giorni. Non basta? La fotografia dell’infermiera che si è addormentata tra un ricovero e l’altro è emblematica della situazione. Gli appelli vanno bene, ma non vorrei che sottovalutassimo le implicazioni di natura sociale e spirituale che dovremo affrontare quando tutto questo sarà finito. Le energie notevolissime della società civile sono note a tutti e possono contare su secoli di storia, basti pensare che le prime Misericordie nacquero in Toscana nel 1200. Per questo in una fase epocale come questa non si può considerare il Terzo settore irrilevante o, peggio, trattarlo secondo una logica di sudditanza. Tanto più che a essere in gioco è proprio il tessuto sociale del Paese.

A cosa si riferisce? C’è una rete di rapporti, che si basano su fiducia e prossimità tra le organizzazioni e le persone, che è messa a dura prova. Quanta gente vive nella solitudine e nella sofferenza questi momenti, completamente isolata da tutti? Il problema non è tanto la vicinanza fisica, che può essere sostituita dal telefono, da Skype, dalle lezioni a distanza come stiamo vedendo. Il problema è già adesso, e sarà ancor più in futuro, quello di riallacciare reti che consentano di assicurare relazioni. Sarà anche compito della comunità cristiana rialzare la testa e ridare fiducia. Con l’esplodere della pandemia del coronavirus, è andato in crisi il mito dell’invulnerabilità e dell’illimitatezza di cui ci siamo nutriti per vent’anni. Siamo stati presi alla sprovvista e ora dobbiamo attingere ai beni relazionali di cui disponiamo in abbondanza.


Per l’economista, storica voce del non profit italiano, «è in gioco il tessuto sociale del Paese. Sarà anche compito della comunità cristiana rialzare la testa e ridare fiducia»
«Fondazioni come Vidas, Ant, Avo che si occupano di sanità e hanno fior di conoscenze possono dare un contributo. Mi aspettavo che venissero coinvolte»

Cosa si sarebbe dovuto fare? L’Italia ha il Terzo settore più avanzato e sviluppato d’Europa, mi ha stupito vedere come sia stato escluso dai tavoli in cui si decide tutto. Fondazioni come Vidas, Ant, Avo che si occupano specificamente di sanità hanno fior di conoscenze e possono dare un contributo, mi aspettavo che venissero coinvolte. Più in generale, chi meglio di chi opera a contatto con le fragilità può aiutare la gente a capire cosa sta succedendo e cosa fare, agendo anche su fronti dimenticati come il carcere e i senza dimora?

Resta il fatto che il nostro Sistema sanitario nazionale è fortemente sotto stress e molti allarmi sono stati inascoltati. Perché? Il nostro sistema sanitario è buono, con un tallone d’Achille: la terapia intensiva. Già nel 2017 il Centro europeo per il controllo delle malattie aveva stilato un rapporto in cui si diceva che l’Italia era il Paese messo peggio, con pochi posti letto, personale sotto equipaggiato e diverse altre lacune. Aggiunga i tagli applicati da trent’anni al settore e il fatto che qui non vale la regola dell’economia di scala: il quadro è completo. Per uscirne bisognerebbe far concorrere ai costi della sanità tutti quei settori, dal biochimico al farmaceutico, che grazie alla stessa sanità realizzano grandi profitti. Una volta finita l’epidemia, tutti contribuiscano alla ricostruzione del sistema in maniera saggia e con una distribuzione questa volta equa degli oneri necessari.

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