martedì 3 ottobre 2023
Dieci anni dopo la strage, l'amarezza dell'angelo dei profughi che oggi vive in Canada: «Si è regrediti a un cinismo e a una indifferenza anche peggiori del clima di allora»
Un momento della manifestazione di commemorazione a Lampedusa

Un momento della manifestazione di commemorazione a Lampedusa - Ansa

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Le bare allineate nell’hangar dell’aeroporto di Lampedusa, davanti quelle dei bambini di colore bianco. E il pianto inconsolabile dei parenti e degli amici delle 368 giovani vite spezzate a poche centinaia di metri dalla spiaggia, quando la libertà e un futuro migliore sembravano ormai a un passo. Sono le immagini impresse nella mente di chi dieci anni fa è stato testimone di una grande tragedia, spartiacque del fenomeno delle migrazioni nel Mediterraneo. Cecilia Malmström, allora commissario europeo per gli Affari interni sollecitò dopo la strage i Paesi della Ue a incrementare le attività di ricerca nel Mediterraneo con pattuglie di soccorso e intervento per intercettare e soccorrere i barconi e i gommoni di profughi e migranti attraverso l’agenzia Frontex. Sappiamo come è andata.

Don Mosè Zerai, sacerdote di origine eritrea e angelo dei profughi e dei rifugiati, allora accorse sull’isola, aiutò i superstiti e chiese di costruire un memoriale per le vittime, molte delle quali mai identificate. È stato ed è il riferimento dei migranti del Corno imprigionati dai trafficanti o in difficoltà in mezzo ai flutti che chiamavano il suo numero e lui a sua volta denunciava le storie dei nuovi schiavi e segnalava alla guardia costiera la posizione dei natanti. Fu il primo a denunciare gli stupri e le torture subite dai migranti eritrei ed etiopi nelle celle in Libia e in quelle nel deserto del Sinai. Attività umanitaria per cui è stato candidato al Nobel per la pace nel 2016. L’anno dopo, però, gli è arrivata l’accusa infamante portata avanti dalla procura di Trapani di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina archiviata dopo ben 52 mesi. Erano gli anni delle accuse roventi alle Ong, culmine di una campagna iniziata nel 2015 da Frontex contro le navi da soccorso private sulle quali peraltro il sacerdote, profugo a sua volta, non è mai salito per scelta. Un albero con il suo nome è stato piantato a novembre da Gariwo nel Giardino dei giusti sul Monte stella a Milano. Oggi don Mosè esercita il suo ministero in Canada come cappellano degli italiani, continua a occuparsi di profughi con la sua Agenzia Habeshia e anche se da allora il 3 ottobre si celebra la “Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione”, non riesce a togliersi l’amara convinzione che la memoria dei morti del 3 ottobre 2013 e le promesse della politica siano state tradite.

Don Mosè Zerai

Don Mosè Zerai - Ansa

In quale clima cade il decimo anniversario della tragedia di Lampedusa?

Nel clima e nella prassi che erige l’ennesima barriera di morte in faccia a migliaia di altri rifugiati e migranti come i ragazzi spazzati via in quell’alba grigia del 3 ottobre 2013. Non sappiamo se esponenti di questo governo e questa maggioranza (non ci andranno, ndr) o se altri protagonisti della politica italiana degli ultimi anni, intendano promuovere o anche solo partecipare a cerimonie ed eventi in memoria. Ma se è vero che il modo migliore di onorare i morti è salvare i vivi e rispettarne la libertà e la dignità, allora non avrà senso condividere i momenti di raccoglimento e di riflessione che la data del 3 ottobre richiama con chi da anni costruisce muri e distrugge i ponti, ignorando il grido d’aiuto che sale da tutto il Sud del mondo. Se anche loro vogliono ricordare Lampedusa che lo facciano da soli. Perché in questi 10 anni hanno rovesciato, distrutto o snaturato quel grande afflato di solidarietà e pietà suscitato dalla strage nelle coscienze di milioni di persone in tutto il mondo.

Che cosa resta dello “spirito” e degli impegni di allora?

Nulla. Si è regrediti a un cinismo e a una indifferenza anche peggiori del clima antecedente quel terribile 3 ottobre. E, addirittura, nonostante le indagini della magistratura, non si è ancora riusciti a capire come sia stato possibile che 368 persone abbiano trovato la morte ad appena 800 metri da Lampedusa e a meno di due chilometri da un porto zeppo di unità militari veloci e attrezzate, in grado di arrivare sul posto in pochi minuti. La vastità della tragedia ha richiamato l’attenzione su due punti in particolare: la catastrofe umanitaria di milioni di rifugiati in cerca di salvezza attraverso il Mediterraneo e il dramma dell’Eritrea, schiavizzata dalla dittatura di Isaias Afewerki, perché tutti i morti erano giovani eritrei, molti dei quali in fuga dal servizio di leva a tempo indefinito.

Come si rispose al primo punto?

Varando “Mare Nostrum”, il mandato alla Marina militare italiana di pattugliare il Mediterraneo sino ai margini delle acque territoriali libiche per prestare aiuto alle barche di migranti in difficoltà e prevenire, evitare altre stragi come quella di Lampedusa. Quell’operazione è stata un vanto per la nostra Marina, con migliaia di vite salvate. A dieci anni di distanza non solo non ne resta nulla, ma sembra quasi che buona parte della politica la consideri uno spreco o addirittura un aiuto ai trafficanti. Esattamente dopo dodici mesi, nel novembre 2014, “Mare Nostrum” è stato cancellato, moltiplicando – proprio come aveva previsto la Marina – i naufragi e le vittime, inclusa l’immane tragedia del 15 aprile 2015, con circa 800 vittime, il più alto bilancio di morte mai registrato nel Mediterraneo in un naufragio. Eppure, al posto di quella operazione salvezza, sono state introdotte via via norme e restrizioni che neanche l’escalation delle vittime oggi arrivare a 28 mila nel Mediterraneo è valsa ad arrestare, fino ad arrivare ad esternalizzare sempre più a sud, in Africa e nel Medio Oriente, le frontiere e quindi i controlli della Fortezza Europa, attraverso una serie di trattati internazionali, per bloccare i rifugiati in pieno Sahara, lontano dai riflettori, prima ancora che possano arrivare ad imbarcarsi sulla sponda sud del Mediterraneo.

Un anno dopo, nel 2014 arrivarono in mare le Ong…

E sono state criminalizzate dalla politica, anche se a loro si deve circa il 40 % delle migliaia di vite salvate. Ma sono state costrette anche a sospendere la loro attività e costrette a navigare per centinaia di miglia in cerca di porti assegnati lontani dal luoghi di soccorso. Il porto più vicino e sicuro previsto dal diritto internazionale marittimo è lettera morta ormai. Le stragi si susseguono, il cinismo ha soppiantato l’umanitario.

E con i rifugiati eritrei?

Si è passati dalla solidarietà alla derisione o addirittura al disprezzo, tanto da definirli “profughi vacanzieri” o “migranti per fare la bella vita”, pur di negare la realtà della dittatura di Asmara. È un processo iniziato all’indomani della tragedia, quando alla cerimonia funebre per le vittime, ad Agrigento, il governo ha invitato l’ambasciatore eritreo a Roma, l’uomo che in Italia rappresenta ed è la voce proprio di quel regime che ha costretto quei 368 giovani a scappare dal paese. Sarebbe potuta sembrare una “gaffe”. Invece si è rivelata l’inizio di un percorso di progressivo riavvicinamento e rivalutazione del dittatore Isaias Afewerki, facendolo uscire dall’isolamento internazionale, associandolo al Processo di Khartoum e ad altri accordi, inviandogli centinaia di milioni di euro di finanziamenti, eleggendolo, di fatto, gendarme anti immigrazione per conto dell’Italia e dell’Europa.

È stata dunque tradita la memoria dei 368 morti di Lampedusa?

Si, sia per quanto riguarda i migranti che per l’Eritrea, resta l’amaro sapore di un tradimento della memoria e del rispetto per le 368 giovani vittime e tutti i loro familiari e amici. E delle migliaia di giovani morti in mare successivamente e degli eritrei e che con la loro stessa fuga denunciano ancora la feroce, terribile realtà del regime di Asmara. Che resta una dittatura anche dopo la firma della pace con l’Etiopia firmata cinque anni fa e che nel Paese dove sono nato non ha cambiato nulla.

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