sabato 29 luglio 2023
Un fenomeno in aumento. Pandemia e conflitti cambiano il volto del racket di vite umane: nascoste tra le mura e nel web. L’impegno delle associazioni
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«Ragazza, alzati», sono le sole parole che Gesù rivolge alla 12enne che giace come morta. E la bambina si rialza, riprende il suo cammino. Quante ragazze vediamo “come morte” ai bordi delle nostre strade, uccise dentro, prive di speranza. Quanti schiavi vediamo nei campi e nei cantieri, lo sguardo spento. Quante vittime della tratta di esseri umani vediamo e quante non ne vediamo, perché sfruttate nel chiuso delle case diventate tortura ed ergastolo... Almeno finché qualcuno non pronuncia quelle parole, «alzati, cammina, noi rimarremo al tuo fianco». È esattamente ciò che fanno le associazioni impegnate contro il commercio di esseri umani, una piaga sempre più estesa, i cui dati emergono drammaticamente questa domenica, in occasione della Giornata mondiale contro la tratta di persone.

«Il 2022 è stato uno degli anni più impegnativi a causa delle tante guerre in corso, dell’impatto della pandemia da Covid-19 e dei cambiamenti climatici», fa sapere Talitha Kum (in aramaico le due parole pronunciate da Gesù che appunto significano "fanciulla alzati"), la rete globale di suore e partner alleati, fondata nel 2009 dall’Unione internazionale delle Superiore generali (Uisg). Da allora Talitha Kum, che è diventata una rete di reti internazionali, è attiva in 97 Paesi e raggiunge 560mila persone nel mondo, in fitta e costante collaborazione con le altre religioni.

«Le nuove forme di schiavitù sono fortemente connesse alle discriminazioni di genere e al proliferare della povertà, le due principali condizioni su cui si alimentano le attività criminali», si legge nell’ultimo rapporto diffuso ieri in 5 lingue. È evidente che più le persone sono messe all’angolo da miseria e fragilità, e più saranno vulnerabili, facile preda di trafficanti e sfruttatori. «Questo deve spingerci ad unire le forze per tessere reti di bene – dichiara suor Nadia Coppa, presidente della Uisg – e diffondere la luce che viene dal Vangelo, cercando di raggiungere coloro che svolgono un ruolo decisivo nello sradicare lo sfruttamento degli esseri umani: solo attraverso azioni congiunte e sistematiche sarà possibile il cambiamento che auspichiamo».

Un cambiamento globale, che però passa attraverso le singole storie: non letteratura ma vite vissute. Come quella di Jessie, proprietaria di un piccolo chiosco alimentare in Uganda, abbagliata dalla promessa di un lavoro più remunerativo in Medio Oriente e invece diventata vittima di schiavitù domestica: lavoro sfiancante, senza paga alcuna e senza cibo... «Nel secondo tentativo di fuga arrivai in una casa di suore, mi accolsero, mi diedero vestiti e dignità. Chiesi di poter tornare a casa, pensavo sempre a come ero stata felice nel mio piccolo chiosco... Oggi le suore di Thalita Kum in Uganda continuano a starmi accanto».

Perché non basta denunciare e fare report, se poi non si concretizzano percorsi di liberazione. Come quelli che l’associazione Papa Giovanni XXIII fondata da don Oreste Benzi attua fin dal 1990, quando l’arrivo massiccio di migranti dall’Albania e dalla Nigeria aumentò repentinamente il numero delle vittime di tratta. Fu don Benzi in persona a fondare il servizio antitratta con la cosiddetta “condivisione di strada”, cioè incontrando le ragazze costrette alla prostituzione, andandole a cercare e offrendo loro, subito, se solo lo volessero, una via d’uscita.

«Nessuna donna nasce prostituta, c’è sempre qualcuno che fa sì che lo diventi», affermava don Oreste, modificando il termine in prostituìta, e in migliaia lo hanno seguito. «Il dialogo con donne e bambini di strada si è poi diffuso in molte parti del mondo e con diverse modalità, per ridare un’occasione di riscatto a ogni persona, che in quanto tale non può essere considerata una merce», spiega Martina Taricco, psicoterapeuta, tra i responsabili del servizio antitratta dell’associazione.

Anche il rapporto della Papa Giovanni XXIII evidenzia le nuove disumane forme di sfruttamento: «Paradossalmente durante il Covid i traffici non si sono mai arrestati, ma viste le restrizioni si sono riorganizzati indoor, ovvero non più in strada – continua l’operatrice –, il che ci rende più difficile intercettare le vittime. Le ragazze, non più “esposte” sui marciapiedi, si offrono attraverso i social e sui siti, ma restano sempre schiave, gestite e controllate da trafficanti».

Sempre più diffuso è il metodo “lover-boy”, da tempo diventata la principale tecnica della tratta interna: «Il fidanzato finge una relazione amorosa con la ragazza per annullare la sua identità, la conduce in una spirale di assoggettamento tale da indurla a qualunque atto sessuale senza che risultino segni di costrizione, e a lungo andare la percezione della violenza subìta viene meno. La violenza psicologica ed economica costruita dal “lover-boy” fa credere alla vittima che il suo sacrificio garantirà un progetto familiare che in realtà non esiste, lo stesso metodo è infatti utilizzato con più donne in contemporanea».

Le più vittime tra le vittime sono le transessuali, «arrivano dal Sudamerica attraverso la Spagna, con un carico di debiti per i trattamenti ormonali di cui non possono più fare a meno. Sono discriminate, senza radici, spesso scacciate dalle loro famiglie», rifiutate qualora volessero inserirsi in un contesto lavorativo normale. «Alcune di loro hanno trovato il coraggio di chiederci aiuto e le abbiamo accolte».

Sfruttamento lavorativo, schiavitù sessuale, costrizione all’accattonaggio, adescamento on line, trappole mortali contro le quali l’associazione di don Benzi è impegnata su tutti i fronti: prevenzione innanzitutto, e poi incontro delle vittime con le unità di strada e le équipe indoor, accoglienza con tanto di assistenza legale, psicologica, sanitaria e formazione a un lavoro.

L’associazione opera in 50 Paesi del mondo. «Le nostre unità di strada sono gocce nell’oceano, ma a piccoli passi cambiano molte vite», racconta la psicoterapeuta, «ero a febbraio nelle baraccopoli del Kenya, dove le donne si prostituiscono letteralmente per fame, 50 centesimi a prestazione. Una di loro oggi vive con noi e studia, presto inizierà a lavorare. Un’altra mamma arrivata dal Sudan è qui a Rimini, ma i suoi bambini sono ancora in Africa, stiamo lavorando per ricongiungere le loro vite». Come ripeteva don Benzi, le vittime della tratta non vogliono essere consolate, ma liberate.


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