sabato 31 marzo 2018
Le mamme dei giovani nel carcere che ospita i loro carnefici: il dolore portato nel cuore, il bisogno di capire ancora «perché è successo» e l’ascolto paziente delle invocazioni di perdono
L'interno del carcere di Poggioreale, a Napoli

L'interno del carcere di Poggioreale, a Napoli

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Un gabbiano vola oltre l’alto muraglione del carcere di Poggioreale. Si posa sul tetto e osserva. Nei vialetti del penitenziario alcune centinaia di persone stanno camminando dietro una Croce di legno. Sono i detenuti ma non sono soli. In mezzo a loro, una trentina di familiari di vittime innocenti della camorra. È la Via Crucis promossa dal Centro diocesano di Pastorale carceraria, assieme alla Fondazione Polis e al Coordinamento familiari delle vittime innocenti delle mafie. Tra di loro c’è Rita, mamma di Attilio Romanò, ucciso a 29 anni il 24 gennaio 2005. È lei che ci fa osservare il gabbiano che compare al momento dell’XI stazione, 'Gesù crocifisso'. Coincidenza? Mamma Rita sorride. «Guarda, proprio ora. Pensa che Attilio aveva scritto una poesia intitolata 'Il gabbiano'...». È la prima volta che partecipa a questa Via Crucis che si celebra ormai da otto anni. Non se l’era mai sentita. «Ma questa volta ho detto subito di sì. Oggi è il compleanno di Attilio, ed è il modo migliore per ricordarlo. Mio figlio è nelle braccia del Signore, chi lo ha ucciso è come morto, con due ergastoli e al 41bis. Io sto provando a perdonare». Intanto, aggiunge, «sono contenta di essere venuta qui». Poi si inginocchia davanti alla Croce. Anche per Teresa è la prima volta. È moglie di Vincenzo Liguori, ucciso il 13 gennaio 2011, ed è qui col figlio Luigi, «per capire il carcere, come lo si vive – dice il ragazzo – per provare a dare un senso alla nostra vita che da allora è una Via Crucis » ma che li porta nelle scuole «per fare in modo che non accada più». E alla fine dalla mamma senti parole che sorprendono. «Valeva la pena venire. Con la speranza che almeno qualcuno di loro si salvi. Sono così giovani, quante vite sprecate...».

Invece «ci deve essere per tutti una possibilità, per questo siamo qui», dice Annamaria, figlia di Marcello Torre, sindaco di Pagani, ucciso l’11 dicembre 1980. E per questo continua ad essere in contatto con alcuni detenuti. Bruno Vallefuoco, responsabile del Coordinamento, in carcere va spesso, non solo a Poggioreale, nel ricordo del figlio Alberto, ucciso il 20 luglio 1998 assieme agli amici Salvatore e Rosario, poco più che ventenni. «Lo faccio perché sono cristiano. O lo faccio qui o dove altrimenti? Questo è il nostro posto, come cristiani e come familiari. E poi per dare un senso ad una morte che non ha senso, come quella 'per caso'. Alberto non può essere morto inutilmente. Devo raccontare la sua storia che è anche la mia storia, confrontare la mia ferita con quella degli altri. Per avere risposte che non ti dà il tribunale». Quelle risposte che cercano anche i detenuti nelle parole lette a ogni stazione. «Anche noi siamo caduti per un errore. Tu Signore ti sei fatto carico dei nostri peccati, dacci la forza di ricostruire la nostra vita». «Anche noi incontriamo una volta alla settimana le nostre madri. Incontri di speranza». «Fa che ognuno di noi si fermi ad asciugare il volto di chi ha bisogno». «Siamo sprofondati nel fango, aiutaci a rialzarci». «Siamo tenebre perché abbiamo scelto il malaffare». «Cadiamo non una, non due, ma mille volte. La tentazione di restare a terra è forte, e lasciare tutto come sempre. Ma tu ci aiuti a rialzarci».

Ma è nella cappella il momento più commovente. A nome dei familiari parla Rosaria, mamma di Gigi Sequino, ucciso il 10 agosto 2000, assieme all’amico Paolo, ventenni. «Chi mi ha aiutato è questa persona in Croce che è viva con noi. Ho vissuto questa mia prima Via Crucis con un dolore strano, quello di tante mamme anche quelle di chi ha sbagliato. Dovevo venire, dovevo piegarmi a Gesù. Lui ora deve darmi la gioia di vivere il perdono. Vi ringrazio». Parole accolte da un lunghissimo applauso dei detenuti, tutti in piedi. Così come applaudono Rita che riesce appena a dire «è la fede che ci farà andare avanti. Per me siete tutti uguali. Vi ringrazio per l’affetto che avete dimostrato». E ringrazia anche la direttrice del carcere Maria Luisa Palma. «È il modo migliore per augurare a tutti di sentire il bene che ci accomuna». È il messaggio di speranza che affida anche il cappellano don Franco Esposito. «La Via Crucis non finisce con la morte ma con la Resurrezione. Qui c’è un pezzo di vita, c’è un risorto». E nella cappella sale il canto 'La ballata del perdono', ritmato dal battimani dei detenuti: « Ogni ghiorn ie vogli sta cu te, tu me rat a vit e salvat pur a me, si tu me stai vicin i numm sent sul, si stong nziem a te nient me fa paur ». Le parole non sono difficili da capire. E danno davvero il senso di questa Via Crucis.

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