giovedì 29 novembre 2012
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La colata continua è come l’altoforno. Non si fermano mai, a meno che non arrivi un uragano. «L’acciaio fuso mi scorre a pochi metri ogni giorno, eppure non ho mai avuto paura come stamane. A metà mattina, tutto si è spento e siamo stati circondati dalla polvere. Quando siamo corsi in cortile le lamiere dei tetti volavano come cartacce al vento». Luigi Marzo è addetto alla colata continua, dove escono le bramme, i semilavorati che i magistrati tarantini hanno messo sotto sequestro. Anche lui è stato sorpreso in fabbrica, ieri mattina, dalla tromba d’aria che ha sconvolto Taranto. I meteorologi dicono che l’abbia creata una "supercella" uno dei temporali più forti che esistano in natura. Di certo, veniva dal mare. L’hanno vista schiantarsi sui moli e sfregiare la cokeria, incattivirsi sull’acciaieria, attaccare le batterie, lambire i parchi minerari. Questi ultimi sono i depositi di materie prime temutissimi dai tarantini perché nei giorni di scirocco le loro polveri venefiche, stoccate a cielo aperto, invadono la città. Ieri sera quei cumuli erano sensibilmente più bassi. La tromba d’aria è piombata sull’Ilva come uno schiaffone capace di disintegrare quintali di cemento armato. Un capannone, un camino e una torre faro sono crollati. Ventisei i feriti, quattro dei quali ricoverati negli ospedali della zona. L’evacuazione è stata immediata, ma un operaio di 29 anni non si è presentato ai cancelli. Al momento dell’uragano era nella cabina di una gru del porto interno. Il vento l’ha scaraventata in mare e non è stata ancora recuperata. Il presidente dell’Ilva Bruno Ferrante ieri sera parlava di «angosciosa attesa».La società ha reso noto che lo stabilimento «ha subito gravi danni strutturali, ancora da quantificare» e gli operai descrivono scene degne di un bombardamento, le stesse che si potevano osservare lungo le statali Taranto-Statte e Taranto-Massafra. «Per allontanarci, prima a piedi, poi in auto, come prescrive il piano di evacuazione - ci ha detto Lino, un tecnico delle officine - abbiamo dovuto spostare a forza di braccia gli alberi e i detriti che avevano occupato l’Appia». Il vento ha concluso la sua opera di distruzione nell’abitato di Statte e si è lasciato alle spalle scene da Armageddon urbano: tetti divelti e macchine fracassate une sulle altre, un furgone sollevato e depositato a ruote all’aria oltre il guardrail. Con il black out si è interrotto anche l’afflusso di acqua alle cokerie e agli altoforni, ma secondo la società già nel primo pomeriggio la situazione era sotto controllo. In realtà, sulla riattivazione degli impianti la tensione con le rappresentanze sindacali ha superato il livello di guardia. «Abbiamo dovuto pretendere che non ripartisse nulla prima che fossero verificate tutte le condizioni di sicurezza», hanno confermato Mimmo Panarelli (Fim) e Antonio Talò (Uilm).  Un irrigidimento che si spiega con la storia recente dell’Ilva, accusata dai magistrati di anteporre la produttività alle altre preoccupazioni. Non a caso, i vertici dell’azienda hanno emesso una nota quando l’allarme era ancora in corso per spiegare che anche se l’acciaieria non era stata evacuata erano stati messi «in circolo tutti i bus aziendali per raccogliere il personale non addetto alla gestione dell’emergenza generale e accompagnarlo alle portinerie e ai punti di incontro dell’azienda». La nota smentiva anche che si fossero verificati incendi: le fiammate seguite al disastro, precisava, erano il segnale del corretto funzionamento dagli impianti di sicurezza, in quanto servivano a bruciare i gas degli impianti danneggiati, che diversamente sarebbero andati in pressione. Il presidente della società Bruno Ferrante ha ringraziato i lavoratori «per la grande competenza, tempestività ed efficienza con cui hanno reagito», e questo «nonostante la tensione di queste ultime settimane», ma ha rivendicato anche che «il protocollo di emergenza ha funzionato benissimo e la messa in sicurezza dello stabilimento è avvenuta in tempi brevi». Per qualche ora, a esser sinceri, si è temuto il peggio e solo nel primo pomeriggio il rischio esplosione è rientrato: Luigi è potuto tornare a Lizzano, dalla sua bimba di quattro anni, con il ricordo dei «cinque minuti più lunghi della mia vita»; Giuseppe, che era su una gru quand’è arrivato il tornado, ha raccontato di «un mondo di polvere e pezzi di fabbrica che volano». La tromba d’aria non ha rimescolato invece le carte della partita politico-giudiziaria che potrebbe chiudersi domani con l’adozione del decreto salva-Taranto. Oggi l’incontro decisivo con il governo.  La proprietà dell’Ilva, ha detto Ferrante, andrà a Roma «con animo aperto e disponibile» e «se si potrà riprendere a produrre i cinquemila operai che sono stati messi in ferie saranno ricollocati ai loro posti». Panarelli ricorda che «il disastro permetterà di chiedere la cassa integrazione straordinaria nell’attesa di riparare i danni ma, come previsto dall’accordo raggiunto con la società, gli stipendi vanno pagati anche per i giorni di fermo decisi dall’azienda e la cassa integrazione ordinaria resta bloccata, anche se sappiamo che l’argomento andrà comunque affrontato nuovamente, con l’azienda, perché il 2 dicembre scadono i termini». In seguito al disastro Cgil, Cisl, Uil e Usb hanno annullato le manifestazioni in programma per oggi a Roma.
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