Dopo i giorni della paura e della disperazione, Taranto e l’Ilva aspettano un segnale. «Il costo per il risanamento dell’area sarà enorme, i tempi sono strettissimi» ragiona Gian Maria Gros Pietro, docente di Economia dell’impresa alla Luiss di Roma, uno degli analisti più attenti allo sviluppo industriale del Paese. Del futuro dello stabilimento si occuperà per decreto il governo, che neutralizzerà il sequestro del sito deciso dalla magistratura e farà ripartire la produzione. Il problema sarà stabilire chi farà cosa.
Professor Gros Pietro, quali margini d’azione ha Palazzo Chigi?La situazione è delicata, visto che occorre trovare un equilibrio tra il diritto alla salute della popolazione e il diritto al lavoro dei dipendenti. Senza dubbio, non è nei compiti della magistratura valutare e proporre delle contemperazioni in questa materia. La produzione dell’Ilva non va arrestata, ma dovrà avvenire in futuro sotto continuo monitoraggio, facendo partire contemporaneamente l’azione di risanamento dell’area.
Toccherà allo Stato tornare a produrre acciaio, magari attraverso una nazionalizzazione temporanea dell’azienda?Può anche darsi che un imprenditore non sia in grado di svolgere un compito enorme come quello che si prospetta adesso. Questo non vuol dire che lo Stato debba essere coinvolto subito. Penso che l’intervento pubblico sia solo l’extrema ratio, l’ultima via percorribile e a certe condizioni. Solo se non ci sarà spazio per altri scenari, potrà esserci un intervento dello Stato straordinario e di breve durata.
Un commissariamento?Il commissariamento è una soluzione la cui efficacia dipende moltissimo dai commissari. L’Italia non ha una grande tradizione in questo campo. L’unico caso di successo in tempi recenti è stato Parmalat, con Enrico Bondi. Ma temo che sia stata l’eccezione che conferma la regola, visto che in moltissime situazioni analoghe le procedure attivate non hanno funzionato e hanno finito per mangiarsi l’attivo dell’azienda.
Crede siano giustificate le nostalgie di chi rimpiange i tempi dell’Italsider?No. Privatizzare la siderurgia non fu affatto un errore, anche perché fino a quando il settore era nelle mani dell’Italsider produceva perdite. Allora l’imprenditore pubblico cercava attraverso la sua attività industriale di procurarsi un consenso politico. Quel che è successo dopo è che da un lato l’impresa Ilva ha riacquisito competitività, mentre dall’altro è venuta a mancare da parte dei regolatori la capacità di imporre il rispetto di regole stringenti. È proprio ciò che deve fare lo Stato, anche se la regolazione e il monitoraggio dovessero venire ostacolati dal comportamento dei privati. Resta il fatto che gran parte dell’inquinamento incorporato nel territorio si è manifestato quando l’impresa era in mano pubblica.
L’industria pesante va considerata un asset strategico oppure no?L’industria pesante di qualità rimane strategica per il nostro Paese. L’Italia potrebbe pensare di importare tutto l’acciaio di cui ha bisogno, ma questo non farebbe che aggravare il <+corsivo>gap<+tondo> competitivo delle imprese utilizzatrici. Bisogna trovare il modo per rendere questo tipo di industria ambientalmente tollerabile. Poi quando riusciremo a produrre acciaio attraverso tecnologie pulite, torneremo in posizioni di assoluta leadership e potremo puntare anche sull’export.