Tre oggetti, apparentemente comuni, potrebbero aprire un nuovo capitolo nell'orrore delle escort romene uccise in Toscana. Una ciocca di capelli, un paio di slip nascosti sottoterra e soprattutto una vertebra umana sono stati ritrovati durante i sopralluoghi nei terreni attorno alla casa e ai luoghi frequentati da Vasile Frumuzache, il 32enne romeno reo confesso degli omicidi delle connazionali Maria Denisa Paun, 30 anni, e Ana Maria Andrei, 27 anni.
È una brutta, orribile vicenda, quella dell’uomo che ha ucciso una “escort”, una giovane donna con la quale avrebbe avuto incontri a pagamento, e che una volta scoperto ha confessato di avere in passato ucciso un’altra prostituta, facendone poi trovare i resti. Ora pare ci siano altre vittime, forse abbiamo a che fare con un serial killer di donne che vendono il proprio corpo o la propria compagnia, probabilmente il contesto degli omicidi è quello di una rete di sfruttamento.
Definire brutta e orribile questa storia è poco, non basta, non ci sono aggettivi, e forse non è necessario aggiungerne perché in realtà i femminicidi hanno tutti caratteristiche indicibili, e la sensazione è che i più recenti siano ancora più inquietanti e dolorosi da accettare – sarà che non ce la facciamo veramente più a leggere (e scrivere) di quello che accade.
Attorno al killer delle escort e alle sue povere vittime è però il caso di aggiungere qualcosa, una lettura che può essere necessaria e va oltre il dramma delle innocenti vite brutalmente spezzate. Non per parlare di omicidi o di violenza sulle donne, ma per provare a muovere il velo steso della narrazione attorno alle “lavoratrici del sesso”, che chiamiamo così traducendo dal termine “sex workers”, entrato nel linguaggio comune grazie ai consolidati meccanismi di contaminazione culturale di cui si serve il mercato quando deve mercificare l’umano.
A noi piace pensare che non è nel lavoro, o in ciò che si è e si fa, l’origine del male, ed è così. Le donne vengono uccise anche quando sono mogli o fidanzate, non solo escort, e la vittimizzazione secondaria è la tentazione di un codice morale alterato, fine. Allo stesso modo potremmo però accettare tutti l’idea – il passaggio logico è il medesimo – che non è regolando il cosiddetto “sex work” la soluzione per evitare il ripetersi di fatti di questo genere. È seducente l’idea che se assunte regolarmente, o magari unite in cooperativa, pagando le tasse, dotate di Pos, e ospitate in residenze “sicure”, con i controlli sanitari del caso, le cosiddette “sex workers” sarebbero molto più protette. Cioè rischierebbero meno.
Non è questo il punto. La vicenda dovrebbe permetterci di spostare il fuoco dalle vittime ai carnefici, per ricordare che cosa si vorrebbe regolarizzare veramente: perché il cliente di una prostituta, come ha insegnato Rachel Moran, è sostanzialmente una persona che paga per stuprare. Può darsi che in altri tempi, quando “i valori erano altri” e la cornice della vita era spesso l’ipocrisia, la definizione di stupro a pagamento non fosse così adatta. Oggi sì.
Un uomo che effettua una transazione economica così da usufruire del corpo di una donna, per quanto lei si creda libera di scegliere, ecco, questo uomo nell’intimo paga per stuprare.
Può essere un abuso dolce, con trasporto, pulito, corretto, regolato. Ma nella mente e nel cuore indurito del cliente pagante non ci si allontana molto dal concetto di stupro. La conseguenza di questo, ovvio, non è per forza la violenza estrema. Ma resta, per quanto edulcorata o ben narrata, una forma di violenza retribuita. Varrebbe la pena pensarci, la prossima volta che, vuoi per un nuovo film, una serie tv, o un dibattito politico, si tornerà a parlare di “sex work” e di gioiosa emancipazione attraverso la vendita del corpo.