giovedì 12 luglio 2012
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«La disciplina normativa manifesta risvolti particolari e drammatici nel caso di condanna all’ergastolo: si verrebbe infatti a configurare l’unica ipotesi, nell’ordinamento penale vigente, in cui l’ergastolo risulterebbe insuscettibile di permettere non soltanto il fine pena, ma addirittura qualsiasi mutamento del regime di esecuzione». Luciano Eusebi, docente di Diritto Penale alla Cattolica di Milano, è uno tra i giuristi che vorrebbero riaprire il dibattito sul tema dell’ergastolo, e in particolare di quello "ostativo".Professore, ammetterà che stiamo parlando di protagonisti di crimini gravissimi.Non si trascura certamente la gravità dei delitti ricompresi nella norma in questione e per i quali sia stata inflitta una condanna all’ergastolo, né si discute dell’esigenza di valutare, ai fini della concessione di determinati benefici, l’atteggiamento del detenuto verso il patto di fedeltà che lo abbia legato a una data organizzazione criminosa. Ciò che viene in considerazione, piuttosto, è l’impossibilità, derivante dalla richiamata lettura dell’impianto normativo, di operare un qualsiasi giudizio rilevante per il diritto circa gli eventuali percorsi risocializzativi dei condannati all’ergastolo i quali non abbiano "collaborato". Anche se un’auspicabile interpretazione della legge 94/2009 potrebbe aprire all’applicabilità di alcuni, almeno, fra quei cosiddetti benefici.Perché la costruzione normativa così come s’è applicata finora non la convince?La presunzione di non avvenuta rieducazione per il mero persistere della condotta "non collaborante" è in palese contrasto col rilievo che dev’essere attribuito al conseguimento del fine rieducativo della detenzione (art. 27, comma 3 della Costituzione). Ciò tanto più nel caso in cui la scelta di non collaborare sia riferita a vicende criminose ormai del tutto concluse nel tempo e abbia la motivazione del non guadagnare opportunisticamente propri vantaggi, con la privazione della libertà di persone non più legate a quelle attività criminose. Oppure, quando la non collaborazione sia ricollegabile al pericolo concreto di ritorsioni irrimediabili verso i familiari dell’eventuale dichiarante.Cos’altro non va?È incomprensibile la disparità di trattamento in rapporto alle normative che solo pochi anni orsono attribuirono rilievo premiale – senza esigere alcuna collaborazione di giustizia – a condotte di dissociazione da attività criminose (e in particolare dal terrorismo). Peraltro, prese di posizione dissociative credibili potrebbero essere riscontrate anche tra condannati all’ergastolo "non collaboranti". Del resto non favorire, rendendoli irrilevanti per il detenuto, percorsi di effettiva rottura con l’attività criminale non giova alla prevenzione.Messa così, non le sembra una sofisticata tortura psicologica per costringere il detenuto a vuotare il sacco?Ribadisco che non potrà mai ritenersi costituzionalmente ammissibile un regime giuridico che annulli gli effetti di una rieducazione effettivamente realizzatasi. Che d’altra parte l’attività collaborativa non costituisca necessariamente un indizio di avvenuta rieducazione (e, pertanto, non risulti indispensabile a quel fine) viene riconosciuto dalla stessa suprema Corte. Altro, comunque, è premiare la collaborazione, altro è sanzionare la "non collaborazione". C’è poi un altro aspetto con risvolti drammatici.Quale?Il fatto che la disciplina per questo tipo di ergastolo finirebbe per presupporre in modo implicito un ordinamento penale il quale sia esente, senza eccezione, da errori giudiziari, come invece risulta smentito, per esempio, nella vicenda relativa ai tragici fatti di via d’Amelio a Palermo. In caso di errore sarebbe a priori impossibile per il condannato innocente una collaborazione di giustizia veritiera e dunque la modificazione del regime esecutivo, nonché, di conseguenza, il fine pena.
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