sabato 13 agosto 2022
L’ispettore generale dei cappellani, don Raffaele Grimaldi: «Serve subito il coraggio di andare oltre la burocrazia e riportare l’umanità nei nostri istituti». L'appello sulle telefonate
L'ispettore generale dei cappellani nelle carceri, don Raffaele Grimaldi

L'ispettore generale dei cappellani nelle carceri, don Raffaele Grimaldi

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La sofferenza si mescola al senso di impotenza. Perché l’abisso che si apre dietro le sbarre lo conosce bene don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani nelle carceri. E provare a colmarlo è impossibile persino per chi «come i miei confratelli fa di tutto per portare conforto ai detenuti».

Allora bisogna «gridare, mandare messaggi forti», come ha fatto il cappellano di Busto Arsizio, don David Maria Riboldi, che nei giorni scorsi ha rivolto un videoappello direttamente alla ministra Cartabia perché siano installati dei telefoni fissi nelle celle (vedi sotto il video postato su Youtube dal quotidiano La Prealpina). Sono giorni durissimi per chi vive quotidianamente nei penitenziari del nostro Paese: l’emergenza suicidi, il sovraffollamento e il caldo eccezionale di queste settimane hanno fatto salire la tensione alle stelle.

«Serve capire una volta per tutte che negli istituti vivono persone spesso fragilissime – spiega don Grimaldi –. Il senso di abbandono aggrava le loro condizioni. Il fenomeno dei suicidi, che quest’anno sta facendo registrare numeri allarmanti, è un problema con cui ci confrontiamo da tanto tempo ormai e che non è stato affrontato».

Cosa sta succedendo?
Conosciamo e parliamo da sempre delle fragilità strutturali del sistema penitenziario: le nostre carceri sono un mondo diversificato, abbiamo strutture attrezzate dove ci sono tante attività, dove le direzioni operano a stretto contatto con la società esterna favorendo la nascita e la moltiplicazione di progetti e percorsi grazie a cui il detenuto si sente seguito. Ma ci sono anche molte strutture dove nulla di tutto questo avviene e i detenuti sono abbandonati. I cappellani in tutto questo fanno quello che possono, spesso è già tantissimo: le attività spirituali che vengono proposte quasi sempre diventano i momenti di dialogo e di confronto altrimenti assenti. Le persone recluse si nutrono di conforto, di tenerezza. Una mano sulla spalla aiuta ad alleviare la sofferenza, può curare la fragilità che senza sfogo porta a scelte anche drammatiche. Questa è la nostra difficile missione: la portano avanti 250 cappellani, aiutati da qualche suora e qualche diacono, a volte supportati dalla polizia penitenziaria che segnala casi particolari, consentendo di creare ponti con la famiglia fuori per esempio. Ma non può bastare.

Che cosa si può fare subito, senza ambire a un riforma del sistema che è lontanissima dal poter essere messa in campo, per cambiare le cose? Il cappellano di Busto Arsizio ha chiesto telefoni nelle celle, perché «una telefonata può salvare una vita».
Faccio mio il grido di don David Maria Riboldi, condivido in pieno il suo appello, anche se purtroppo persino per installare dei semplici telefoni servirebbe un tempo che non abbiamo quando ci troviamo nel pieno di un’emergenza come questa. Noi però dobbiamo gridare questa emergenza, dobbiamo esigere ascolto e risposte: potrebbe subito, adesso, essere quella di permettere più telefonate, di allungare i tempi delle conversazioni con le famiglie. Ci sono detenuti che possono parlare con una sorella, una moglie, o una madre appena 10 minuti. Quando ci sono dei momenti di fragilità, quando a casa succede qualcosa, di bello o di brutto, come un lutto per esempio, queste persone devono avere la possibilità di stare di più a contatto coi familiari. Serve il coraggio di andare oltre la burocrazia, perché la burocrazia sta uccidendo la speranza nelle nostre carceri. E serve umanizzare gli istituti: dobbiamo difendere la dignità delle persone, anche se hanno sbagliato. Ma c’è anche altro da fare.

Per esempio?
Una programmazione delle attività: le direzioni sanno perfettamente che tra luglio e agosto, quando iniziano le ferie e gli organici si riducono ancora di più e quando anche dall’esterno arrivano meno persone, negli istituti si avverte un senso di vuoto. È in questi due mesi che bisogna far sì che la vita non si spenga in carcere: so di un campo scout che s’è svolto dentro a un istituto minorile, di attività ricreative e laboratori, di spettacoli. Sono l’esempio concreto che l’emergenza può essere prevista, che si può arrivare prima.

Che effetto le ha fatto la vicenda del suicidio di Donatella, a Verona, e del giudice di sorveglianza che ha chiesto scusa per non aver potuto fare niente per fermarla?
Vedo in questo gesto il coraggio di cui parlavo poco fa. Un giudice di sorveglianza che chiede scusa riporta l’umanità e l’umiltà in carcere, può essere la molla che fa scattare la reazione generale nel sistema che serve, adesso più che mai.


Il video postato su Youtube dal quotidiano La Prealpina con l'appello di don David Maria Riboldi alla ministra Cartabia perché siano installati dei telefoni fissi nelle celle.

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