domenica 30 settembre 2018
Con l’aiuto di un vescovo si cercano notizie dei dissidenti fatti sparire dai militari argentini
Uno dei memoriali dedicati agli «scomparsi» in Argentina

Uno dei memoriali dedicati agli «scomparsi» in Argentina

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Un medico per vocazione, talmente convinto della necessità di difendere i più deboli dalle follie della dittatura, da rientrare nel Paese da cui era stato cacciato e sparire per sempre. E poi un’intera famiglia imprigionata senza un motivo, torturata, fino a che una sorella riesce a tornare in Italia e testimoniare in prima persona l’orrore vissuto. C’è un legame sottile che attraversa l’oceano e unisce la più grande delle isole del Mediterraneo e il nuovo mondo.

Sicilia e Argentina, cucite insieme dalla necessità di emigrare tra Ottocento e Novecento per trovare lavoro, speranza e futuro in una terra lontana, e dall’aver condiviso il dolore e il mistero per uomini e donne scomparsi nel nulla, risucchiati da repressioni, torture, rapimenti messi in atto dal 1976 al 1983, durante la dittatura militare di Jorge Rafael Videla.

Un legame che il tempo ha magari allentato, sfilacciato, ma mai spezzato, grazie soprattutto alla memoria di chi ce l’ha fatta e di chi ha contribuito, ciascuno a suo modo, a difendere i diritti di quei prigionieri politici e dei 'desaparecidos'. Monsignor Michele Pennisi, da cinque anni e mezzo arcivescovo di Monreale, conserva ancora, dopo quasi quarant’anni, la corrispondenza epistolare con la Nunziatura apostolica di Buenos Aires, con la Pontificia commissione Iustitia et Pax e con la Caritas Internationalis per ottenere informazioni, nel 1979, su alcune persone scomparse in Argentina, tutte di origine siciliana.

«Da giovane sacerdote a Grammichele - racconta monsignor Pennisi - ho conosciuto le vicende di alcuni prigionieri politici vittime della dittatura militare in Argentina. Mi sono dato da fare e, grazie a 'Caritas Internazionale', 'Giustizia e Pace' ed altre organizzazioni umanitarie come Amnesty International, sono riuscito in collaborazione con altri a farne liberare alcuni portandoli in Italia. Altri purtroppo sono spariti nel nulla.

A distanza di tanti anni è importante non dimenticare questa tragedia umanitaria per evitare che si ripeta». La testimonianza di Pennisi è l’ossatura di un coraggioso lavoro di ricostruzione storica portato avanti dal regista palermitano Gaetano Di Lorenzo e dal fotoreporter José Luis Ledesma, in collaborazione con l’associazione culturale Allunaggio e con il giornalista Giorgio Mannino. Insieme stanno raccogliendo le storie di siciliani rimasti vittime della dittatura argentina, attraverso le testimonianze di chi li ha conosciuti.

«Nel 1979 lavoravo per il giornale Cronica e ho visto colleghi vittime del terrorismo di Stato. Anch’io sarei dovuto salire sull’aereo quel 14 settembre 1980, quando morirono tre miei colleghi - racconta Josè Ledesma, 62 anni, che da molto tempo vive a Palermo - . Ho continuato a lavorare in Sicilia, documentando l’arresto di tutti i grandi boss di mafia. In fondo anche qui si è verificato un fenomeno simile a quello dei desaparecidos, basti pensare a quante persone sono scompare con la 'lupara bianca', sembra un comune denominatore. Ancora adesso in Argentina la gente continua a scomparire: un tempo era responsabilità del governo, oggi del traffico d’organi e della prostituzione».

Non è facile trovare notizie sui desaparecidos di origine siciliana, ed è anche costoso. Qualcosa in più si conosce su Salvatore Privitera, nato a Grammichele in provincia di Catania, ma cresciuto in Argentina, nella città di Mendoza, dove la famiglia era emigrata quando aveva appena sette anni.

Il sito della '24marzo' onlus raccoglie alcune notizie su Privitera, che si laurea in Medicina a Cordoba, diventa anestesista all’ospedale Rawson. «L’attività di medico lo porta a contatto con le carenze strutturali delle istituzioni sanitarie, che denuncerà costantemente nell’ambito della sua attività sindacale – si legge –. Nel 1973 è prelevato dall’ospedale nel quale lavora, as- sieme alla moglie medico, e arrestato con l’accusa di aver preso parte ad un’azione armata ai danni della caserma di Belville, avvenuta qualche mese prima. Processato e prosciolto dall’accusa, resta in carcere fino al 1979, quando, grazie soprattutto all’attività di sensibilizzazione condotta dal fratello Paolo Privitera in Italia, e alle pressioni del governo italiano, viene scarcerato ed espulso». Privitera torna in Italia senza mai perdere di vista la situazione in Argentina, dove probabilmente fa rientro nel 1980, ma a quel punto si perdono le sue tracce. Monsignor Pennisi riesce a incontrarlo a Grammichele, «ma voleva tornare in Argentina per cercare di trovare sua moglie – racconta l’arcivescovo –. Sono stato con lui a Roma, ma mi ha detto che non poteva fidarsi degli argentini lì, perché potevano essere spie».

Molto articolata e controversa la storia dell’intera famiglia Cannizzo: Maria Teresa, Manuel, Sebastian, Josè Luis, Juan Antonio; il padre era stato fondatore della Democrazia cristiana a Cordoba. «Sono intervenuto con la Segreteria di Stato del Vaticano, che ha attivato il nunzio a Buenos Aires, Pio Laghi, il quale mi scrive l’8 agosto 1979, dicendomi di avere ricevuto risposta dal ministero dell’Interno argentino sulle sorti dei cinque fratelli – rivela monsignor Pennisi, mostrando i documenti –: tre sono arrestati, a disposizione del potere esecutivo nazionale; Maria Teresa è stata liberata e mandata in Italia il 3 giugno 1979, dopo lunghi mesi di carcere; mentre Juan Antonio è scomparso e di lui non ci sono altre notizie. Ho poi seguito per un po’ di tempo Maria Teresa, che mi ha raccontato delle torture, ha preso il diploma di assistente sociale a Caltagirone, ha vissuto diversi anni in Italia, poi è tornata in Argentina e ora è morta. Era impegnata nel sociale con i bambini di strada».

Non è facile trovare notizie e ricordi nitidi. «Io l’ho fatto come dovere umano e cristiano di un prete. A Grammichele, allora, ho trovato molta solidarietà – dice ancora l’arcivescovo –. Ma, in generale, ho riscontrato disinteresse nell’opinione pubblica, mi chiedevano chi me lo facesse fare. Il problema è che quando non si rispettano i diritti umani in un’altra nazione non si rispettano neanche da noi».

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