sabato 29 gennaio 2022
Il Policlinico romano è stato strategico nel contrastare e studiare il virus sin da quando, nel febbraio 2020, si riunì la prima unità di crisi interna. «Prepariamoci alla guerra», si disse all’epoca
L'attività nei reparti ad alta intensità di cura del Policlinico Gemelli

L'attività nei reparti ad alta intensità di cura del Policlinico Gemelli - Gemelli

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La guardia giurata che presidia l’ingresso centrale del Gemelli si avvicina con riverenza: «Sa com’è, professore, glielo dobbiamo chiedere sempre sto’ Green pass, abbia pazienza». Il direttore del Dipartimento Scienze dell’Emergenza, anestesiologiche e della rianimazione, Massimo Antonelli, mostra sorridente la schermata del cellulare con il certificato verde. Poi si affretta a raggiungere il suo studio al quarto piano. Nel corridoio dei primari, alle 6.20 del mattino, solo un’altra stanza ha la luce accesa. Guarda incuriosito le tante piante sparse per lo studio: «Quello è un pothos, più la poti più ricresce, io la chiamo pianta carnivora».

Neanche il tempo di togliere il cappotto e posta sulla chat WhatsApp, condivisa con la task force anti-Covid del Gemelli e da tutti gli ospedali laziali, la situazione dei reparti ad alta intensità di cura. Ingressi, uscite, trasferimenti, eventuali decessi. Tanti pazienti Covid occupano ancora le quattro terapie intensive da lui coordinate (l’ospedale ne ha sette).

L'attività nei reparti ad alta intensità di cura del Policlinico Gemelli

L'attività nei reparti ad alta intensità di cura del Policlinico Gemelli - Gemelli

Questo Policlinico universitario romano è una città della salute con i suoi 1.500 posti letto e 5.700 dipendenti. Antonelli si divide tra clinica e università: in Cattolica, ateneo da cui è nato l’ospedale, è titolare di cattedra e direttore della Scuola di specialità in Anestesiologia e rianimazione.

Alle 6.35 è già in terapia intensiva neurochirurgica. «La pressione su queste unità è ancora alta». Ma come? Nonostante Omicron… ancora malati gravi? «Nelle intensive – dichiara Antonelli – abbiamo 70 ricoverati, 45 dei quali lottano contro il Sars-CoV-2. Non è una situazione paragonabile al passato ma rileviamo sempre un’alta attività della variante Delta. Che influisce. Anche perché l’80% di chi arriva qui non è vaccinato. Omicron o no, senza immunizzazione questo virus può fare molto male». D’altra parte, «noi assistiamo al declinare dei fenomeni solo a distanza di settimane rispetto agli altri reparti. I pazienti hanno degenze lunghe, normalmente dalle 3 alle 5 settimane, con eccezioni a 4 mesi. Sono reparti diversi dagli altri, ti confronti con la morte ogni giorno».


L’infettivologo Fantoni:
«Qui non abbiamo solo curato,
abbiamo fatto scienza.
Il Policlinico ha prodotto
1.100 pubblicazioni»

Antonelli passa letto per letto, «una vecchia abitudine». Non certo una prassi scontata per chi ricopre un ruolo apicale come il suo e che può contare su centinaia di collaboratori, assistenti, aiuti. Dall’unità neurochirurgica a quella post-operatoria. Ancora ascensori e due corridoi, quindi la tappa obbligata nella Rianimazione generale. Poi il primario si dirige al parcheggio per salire sulla sua auto, «la mia ambulanza privata»: gli serve per spostarsi nell’edificio più lontano, il Columbus, circa un chilometro.

L’auto costeggia il Pronto soccorso del Gemelli, dove ogni anno arrivano 80.000 pazienti. Furono tanti di più nel 2020, quando l’accesso centrale fu denominato, e sinistramente ricordato, "Percorso febbre". Dopo il "paziente 1" di Codogno, racconta, «avevamo 2-3 settimane di vantaggio sulla Lombardia. I vertici dell’ospedale istituirono un’unità di crisi. "Prepariamoci alla guerra", disse qualcuno nella prima, concitata riunione», che anticipò una rivoluzione anche strutturale dell’ospedale. Tutto il personale tecnico lavorò 24 ore su 24 per creare i cosiddetti "percorsi puliti e sporchi", che inaugurarono una nuova modalità di accesso ai servizi e reparti del Policlinico.

Il trasporto di un paziente nell'edificio Columbus, che ospita il Covid Hospital

Il trasporto di un paziente nell'edificio Columbus, che ospita il Covid Hospital - Gemelli

«Nacque la resistenza alla più grave emergenza sanitaria dalla seconda guerra mondiale. Da 43 posti intensivi dei "tempi di pace", passammo ad averne 100 tra la seconda e la terza ondata, di cui 70 dedicati a pazienti Covid. Ho avuto paura, avevamo paura, dell’incognito soprattutto – confessa Antonelli –. Non sapevamo come curare, sentivo a tutte le ore i colleghi di Milano, Pavia, Cremona, e si viveva nei reparti. Riabbracciai mio figlio dopo mesi». Da allora ad oggi 7.200 pazienti positivi sono stati dimessi al Gemelli. Il ricordo si fa commozione: «Roma rispose alla pandemia. Con tutte le armi che aveva. Il personale sanitario lavorava senza sosta non senza conseguenze personali. I media fecero scoprire al grande pubblico la figura dell’intensivista. E la gente capì che l’anestesista non è proprio quel professionista che si limita a farti addormentare prima di un intervento…».


L’anestesista Antonelli:
«L’80% di chi arriva qui
non è vaccinato.
Senza immunizzazione questo virus
può fare molto male»

Eccolo il Columbus, la prima linea di trincea. 180 posti letto, quasi 50 di terapia intensiva. È il Covid Hospital del Gemelli, dove la contesa con il virus non si è mai fermata. Gran parte degli attuali 260 malati di Covid del Policlinico trovano posto qui. Accolto dai medici di guardia e dall’infettivologo Fantoni, responsabile delle degenze Covid, il direttore di dipartimento vede il primo paziente. «Non ho un’ottima memoria dei nomi – riprende –, ma i loro volti li ricordo tutti». Non c’è un posto libero. «In quella stanza – indica – l’anno scorso era collegato a un respiratore un famoso tatuatore, un fanatico no-vax, negazionista del Covid. Era grave, lo salvammo a fatica. Capì quanto fosse insensato rifiutare il vaccino. Dopo alcuni giorni mi chiamò: "Professore volevo dirle grazie. Ho mandato a vaccinare tutta la mia famiglia". Passarono poche settimane e ci mandò un elenco di no-vax che convinse a immunizzarsi. Ho visto morire pazienti che implorai, inascoltato, di farsi curare».

Dentro queste mura non si fa solo cura, evidenzia Fantoni, «ma anche scienza». Mettendo insieme «infettivologi, pneumologi, internisti, anestesisti, geriatri, abbiamo scoperto una grande fertilità culturale e scientifica». Un’osmosi che ha consentito al Gemelli di produrre 1.100 pubblicazioni scientifiche a tema Covid, alcune di altissima qualità, «capaci di orientare gli approcci terapeutici a vari livelli. Abbiamo studiato l’utilizzo dei nuovi farmaci, partecipando a sperimentazioni internazionali». Questi due anni, per Fantoni, sono anche stati «una straordinaria avventura umana, perché abbiamo affrontato una malattia portandoci dietro la sofferenza legata all’isolamento e all’incertezza. Ho lavorato con colleghi giovanissimi, formati nella nostra facoltà di Medicina della Cattolica, capaci di inaspettata saggezza. E ho visto colleghi anziani mettersi in gioco come ragazzini».

A pochi metri dal corridoio che conduce ai posti letto intensivi, Fantoni si sfoga: «È frustrante assistere pazienti che potrebbero facilmente cavarsela col vaccino, e che invece si ammalano perché lo rifiutano, impattando sul sistema sanitario da più punti di vista». E osserva: «Ora abbiamo le armi per combattere». Ed elenca, al di là dei vaccini, la controffensiva terapeutica più avanzata: «Possiamo contare su tre anticorpi monoclonali, tre farmaci antivirali (compreso il Paxlovid di Pfizer, che ha ricevuto l’ok dell’Ema giovedì, ndr) alcuni dei quali potrebbero farci svoltare, 4 trattamenti immunomodulanti, che servono a interrompere la fase della malattia in cui la cosiddetta tempesta infiammatoria prevale sull’aspetto virale, e ancora, sul cortisone per pazienti con insufficienza respiratoria, e sulla terapia anti-coagulante».

Grazie a questo ventaglio di opportunità, e pur scontando la carenza di personale a casa perché positivo (più di 400 persone), «le cose in ospedale migliorano, la degenza media si riduce e la variante Omicron sembra avere uno spettro clinico di minore gravità ma è meglio andarci cauti – avverte l’infettivologo –. A volte noi medici, per rincorrere i tempi dei media, diventiamo troppo precipitosi nel dare informazioni. Qualche volta dovremmo rispondere alle domande con un "non lo so". Più in generale servirebbe uno sforzo per divulgare informazioni attendibili e verificate, tra professionisti e tra professionisti e cittadini».

Non è l’unico «insegnamento» della pandemia. «Sul piano scientifico – commenta Fantoni – c’è un’eredità altamente positiva perché il mondo ha cementato uno sforzo così corale da portare a risultati straordinari in breve tempo. E lo ha fatto con umiltà. Dal punto di vista delle politiche sanitarie credo che si dovrebbe far presto a potenziare la medicina del territorio, forse i medici di famiglia sono stati lasciati troppo soli e con scarse informazioni».

C’è poi un’eredità morale e spirituale dentro questa lunga vicenda. E ci sono le storie. «Forse un giorno ne parleremo». Se gli chiedi cosa lo ha più commosso dal 2020 ad oggi, Fantoni non ha dubbi: «È la vicenda del mio collega più anziano. Era il giorno di Pasqua 2020. Tutto era sigillato in ospedale, non avevamo armi contro il virus. E regnava la paura per il contagio. Lui è entrato in ogni stanza di degenza, ha visitato paziente per paziente, li ha confortati, li ha accarezzati, portando loro gli auguri di tutta la famiglia del Gemelli. Mi sono accorto solo dopo che, debitamente autorizzato, nelle sue mani aveva le ostie consacrate per l’Eucaristia che offriva a chi ne faceva richiesta, pregando con loro. Le dico la verità, non si faceva a gara per rischiare un contagio altamente probabile. Lui volle farlo, e nessuno poteva fermarlo. Mi pregò che quel gesto restasse riservato...».

Al Columbus Antonelli ha intanto completato il giro nei reparti. «Sa perché ce l’abbiamo fatta quando non c’erano i vaccini?», domanda guardando delle foto sul cellulare. «Perché si riuscì ad arruolare gli specializzandi del quarto e quinto anno dell’università. Straordinari, impagabili, umili, i miei allievi della Cattolica – ammette con gli occhi lucidi –. Chi si ricorderà mai di queste decine e decine di ragazzi spediti nel mare in burrasca, ai quali chiedemmo sacrifici mai narrati dai media? Chi ricorderà i loro turni massacranti dopo un panino mangiato in piedi nei corridoi impregnati di disinfettante e 20 minuti di sonno su una improvvisata barella? Chi, le loro mani che stringevano quelle di pazienti giunti all’ultimo bivio? Chi gli dirà mai grazie?».

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