giovedì 4 maggio 2023
Redaelli: nei due nuovi strumenti non tutto è negativo ma vengono escluse diverse fragilità, si lavori insieme in Parlamento
Monsignor Carlo Roberto Maria Redaelli, arcivescovo di Gorizia e presidente di Caritas Italiana

Monsignor Carlo Roberto Maria Redaelli, arcivescovo di Gorizia e presidente di Caritas Italiana - .

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Per affrontare la povertà le nuove misure adottate dal governo non bastano, serve un intervento strutturale. La Caritas italiana non nasconde preoccupazione. In una nota critica diramata ieri, all’indomani dell’approvazione del “decreto lavoro”, la presidenza dell’organismo pastorale della Cei mette in fila quello che non va e invita alla corresponsabilità per trovare insieme opportunità di miglioramento, «dialogando in spirito costruttivo» con una «riflessione attenta» sia sulle due misure che hanno sostituito il Reddito di cittadinanza che sulla gestione del fenomeno migratorio che non deve più essere emergenziale e deve puntare sull’accoglienza diffusa.

«Non tutto è negativo - riconosce il presidente della Caritas italiana, l’arcivescovo di Gorizia Carlo Roberto Maria Redaelli riferendosi alle due nuove misure antipovertà –, anche noi avevamo chiesto la separazione del vecchio Reddito di cittadinanza che ora si concretizza nell’Assegno per l’inclusione (Adi) e lo Strumento di attivazione (Sda). Positivo anche che sia stato abbassato da dieci a cinque anni il limite di residenza in Italia per gli stranieri regolari, come richiesto dall’Ue, che possono richiedere di usufruire delle nuove misure». Ma addentrandoci nel merito emergono i limiti dell’aiuto agli ultimi.

«Per quanto riguarda l’assegno - prosegue il presidente della Caritas - le categorie previste sono anche interessanti (famiglie con minori, con over 60enni o con persone con disabilità e invalidità, ndr ), però restano escluse ad esempio le coppie senza figli, le persone con problemi psichiatrici e ancora una volta i senza dimora. In generale i nostri centri di ascolto ci fanno vedere che la povertà non è mai solo economica, quindi diventerebbe molto importante il coinvolgimento dei servizi sociali e del terzo settore territoriale che invece resta solo evocato».

Per quanto riguarda lo strumento di attivazione per chi è senza lavoro, la Caritas non giudica positivo il requisito anagrafico tra 18 e 59 anni. «Vengono dati 350 euro mensili per un anno. Ma mentre una persona qualificata può essere reinserita, per chi non ha competenze la situazione resta complicata. Il tempo è breve e non si considera che in questa fascia di popolazione potrebbero trovarsi persone che hanno fragilità e vulnerabilità tali da render necessari interventi di supporto psico-sociale specifici piuttosto che di attivazione al lavoro. Inoltre se in un anno al massimo non si rendono autonomi, al termine della formazione seguita non avranno diritto a nessun aiuto da parte dello Stato. Ma ci sono tante situazioni di povertà cronica, purtroppo. Non viene poi tenuto presente il tema della povertà sanitaria. L’accesso alle prestazioni del servizio sanitario nazionale è ovunque complicato, chi non può pagare è sottoposto ad attese troppo lunghe».

Dopo il confronto delle scorse settimane, cosa chiede la Caritas? «Ci auguriamo di riprendere il dialogo anche perché si tratta di un decreto legge, suscettibile quindi di modifiche in Parlamento con ulteriori revisioni che tengano conto dell’esperienza delle tante realtà che si occupano da anni di povertà a stretto contatto con le persone in difficoltà. Poi occorrerebbe magari una sperimentazione delle misure che spesso restano sulla carta. Vorremmo che non si ripetesse l’esperienza del Reddito di cittadinanza che aveva la mira un po’ spostata rispetto al target». Infine, la Caritas sottolinea la questione del lavoro povero, con salari troppo bassi.

«Perché siano efficaci, le politiche di contrasto alla povertà richiedono interventi volti a ridurre la precarietà. Non so se funzioni o meno il salario minimo garantito, ma ci sono padri di famiglia che non arrivano più a fine mese o giovani impiegati anche nei servizi che non possono compiere un cammino serio con stipendi così bassi. Qualsiasi misura di contrasto deve assicurare a chiunque cada in povertà il diritto a una vita dignitosa fino a quando persiste la condizione di bisogno e il fenomeno del cosiddetto “lavoro povero”. Il decreto invece prevede strategie di detassazione che, seppur lodevoli, non sono configurabili come una politica dei redditi o di contrasto alla povertà. Invece in altri Paesi europei le misure contro la povertà garantiscono il diritto a una protezione adeguata per chiunque non sia in grado di vivere dignitosamente e per tutto il tempo in cui persiste la condizione di bisogno».

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