sabato 21 luglio 2018
Parla il presidente della commissione che ha lavorato alla normativa dell’ordinamento penitenziario, ora bocciata dalle Commissioni Giustizia
Glauco Giostra: «Carceri, c'è una riforma da salvare»
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Non si può seppellire la riforma a colpi di slogan sulla certezza della pena. «Nessuno "svuotacarceri", solo maggiore possibilità di ricorso alle misure alternative, in linea con la Costituzione e la stessa convenienza generale». Il professor Glauco Giostra, presidente della Commissione che lavorò a lungo, la scorsa legislatura, alla riforma dell’ordinamento penitenziario difende l’impianto della normativa, che sembra invece avviata a un binario morto.

Ma difficilmente il governo si discosterà dai pareri contrari che sono arrivati delle Commissioni Giustizia di Camera e Senato.
L’odierna maggioranza ha, rispetto alla riforma penitenziaria, un problema politico ed uno tecnico. Il problema politico è costituito dalle prese di posizione violentemente critiche espresse durante la campagna elettorale. Senza aver mai neppure fugacemente esaminato il progetto di riforma (perché altrimenti la cosa si farebbe molto più preoccupante), ci si è abbandonati ad invettive prive di qualsiasi fondamento, complice la contesa elettorale nel corso della quale tutte le forze politiche danno puntualmente il peggio di sé. Quando si ha alle spalle amenità del tipo «è una riforma che favorisce la mafia», «ci sarà un allentamento del regime del 41bis», «è una riforma criminale», è poi quasi impossibile affrontare con obiettività la questione. A ciò si aggiunge una difficoltà di tipo tecnico: nessuno sarebbe in grado di analizzare in poche settimane questo complesso disegno riformatore che la precedente maggioranza ha lasciato in eredità all’attuale per calcoli elettoralistici: miopi, a giudicarli ex ante; patetici, a giudicarli ex post. Ma l’attuale governo, ove ritenesse importante ma migliorabile la riforma, avrebbe davanti a sé due vie: approvarla, farla divenire esecutiva e avvalersi del potere, che la stessa delega gli conferisce, di apportare entro un anno con decreto tutte le modifiche ritenute necessarie; oppure approvarla, differirne l’entrata in vigore di un anno o più, per avere un tempo ragionevole che gli consenta di elaborare modifiche attentamente meditate prima dell’entrata in vigore.

Anche il Ministro della Giustizia ha più volte fatto riferimento alla necessità di salvaguardare il principio di certezza della pena…
Quando si usano espressioni vaghe come questa, si ha l’onere di precisarne il significato. Se si intende affermare che il condannato - qualunque sia la sua evoluzione comportamentale - deve rimanere in carcere sino all’ultimo giorno della pena irrogata, si inventa un principio che non solo già oggi non trova attuazione, ma che è contrario alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e alla Costituzione. Proprio in questi giorni la Consulta ha affermato che «la personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, foss’anche il più orribile; ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento. Prospettiva, quest’ultima, che chiama in causa la responsabilità individuale del condannato (…); ma che non può non chiamare in causa - assieme - la correlativa responsabilità della società nello stimolare il condannato ad intraprendere tale cammino, anche attraverso la previsione da parte del legislatore - e la concreta concessione da parte del giudice - di benefici che gradualmente e prudentemente attenuino, in risposta al percorso di cambiamento già avviato, il giusto rigore della sanzione inflitta per il reato commesso, favorendo il progressivo reinserimento del condannato nella società».

O, ad esempio, la pena non è certa perché il giudice può infliggere al rapinatore da 4 a 10 anni?
Se a nessuno è mai venuto in mente di sostenerlo è perché tutti comprendono che la discrezionalità concessa al giudice serve per meglio commisurare la pena alla gravità del fatto concreto. Perché, allora, quando le modalità di esecuzione e talvolta la durata della pena sono calibrate dal giudice sulla base dell’evoluzione comportamentale del soggetto, si parla di incertezza della pena? Come non si pretende che tutti i rapinatori siano puniti con "x" anni a prescindere dal fatto di cui si sono resi responsabili, non si dovrebbe pretendere che tutti i condannati scontino la stessa pena a prescindere dal loro comportamento nel corso dell’espiazione.

Quindi lei contesta del tutto che la riforma si risolva in uno "svuotacarceri"?
Se con il rozzo neologismo di "svuotacarceri" si intende alludere a provvedimenti di automatica fuoriuscita dal carcere le dico che la riforma in realtà abroga l’unica normativa "svuotacarceri" presente nel nostro ordinamento (la legge 199 del 2010, che prevede l’espiazione presso il domicilio delle pene sino a 18 mesi) e non introduce nessuna disposizione analoga. Prevede solo una più ampia possibilità di adottare misure alternative alla detenzione quando il condannato ha dato prova di potere rispettare prescrizioni impegnative (molto più di quelle attuali), anche nell’interesse della collettività, sotto il controllo dell’Uepe e della polizia penitenziaria.

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