martedì 2 novembre 2010
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«Il carcere deve essere l’extrema ratio. Una soluzione da adottare nei casi in cui c’è il pericolo della ripetizione di reati gravi o se c’è un legame con le organizzazioni criminali. Anche perché far leva sul carcere incide poco sui tassi di criminalità e non produce reinserimento sociale». Superare la centralità della detenzione «ma non solo per umanitarismo», precisa Luciano Eusebi, ordinario di Diritto penale nell’università Cattolica di Milano, che ha affrontato questi temi nel documento dell’associazione Scienza&Vita, dove si sollecita a «introdurre pene non detentive e avviare procedure riparative». «Il carcere, inoltre, ha costi molto alti e la società dà per scontato che debbano essere tollerati. Pochi però sanno che una pena eseguita in libertà costa circa un quinto rispetto a una pena detentiva». Ma per raggiungere questo scopo è necessario investire su una prevenzione che «sia vera e non solo di facciata»: neutralizzando i fattori che favoriscono le scelte criminose (come i paradisi bancari o l’infedeltà fiscale), incidendo sugli interessi economici alla base delle condotte criminali (con la confisca dei profitti illeciti), spiegando che la prevenzione non dipende dal timore, bensì dalla capacità di tenere elevata l’autorevolezza delle norme (e nulla la rafforza maggiormente dell’avvenuto recupero del trasgressore). «Però promettere la costruzione di tre nuove carceri porta consenso elettorale, al contrario impegnarsi nell’assunzione di 100 educatori che lavorino nell’esecuzione della pena - puntualizza Eusebi - viene visto come uno spreco. Occorre superare questa visione o non si va da nessuna parte».Perché non è sufficiente costruire nuove prigioni per affrontare l’emergenza-carcere?Perché la dilatazione dei posti non risponde a esigenze preventive, ma continua a presentare all’opinione pubblica un modello inefficiente e che colpisce soprattutto fasce di condannati che vengono da gravi condizioni di emarginazione: mentre il diritto penale resta di fatto pletorico, proprio perché incentrato sulla sola pena detentiva, nell’ambito dei reati economici. Occorre fare un passo in più.Quale?Lavorare sulla prevenzione reale. Oltre a quanto s’è detto, occorrono servizi sociali che sappiano intercettare situazioni di disagio esistenziale le quali, talvolta, sfociano in omicidi efferati ma assai poco contrastabili con la minaccia della pena. Professore, se il carcere deve rappresentare l’extrema ratio, quali possono essere le alternative alla detenzione? Da un lato sanzioni di tipo monetario commisurate alla capacità economica, sanzioni interdittive, ma anche la generalizzazione della responsabilità per reato degli enti giuridici. Dall’altro lato percorsi riabilitativi seriamente seguiti e tutto il filone, oggi poco attuato, della giustizia riparativa: che rimette al centro il rapporto infranto con la società e la vittima.Cosa intende con giustizia riparativa?Pensiamo a un istituto diffuso in vari paesi: l’imputato, entro una certa fase delle indagini, può fare una proposta riparativa al giudice, non coincidente col risarcimento del danno. Se il giudice la considera adeguata il processo si chiude ottenendo così risultati importanti: l’autore del reato ha riconosciuto la propria responsabilità, la vittima è soddisfatta e l’autorevolezza della norma è stata ristabilita in tempi brevi.In Italia è già possibile ricorrere a strumenti simili?È senza dubbio positiva l’esperienza della “messa alla prova” in ambito minorile, che può durare fino a tre anni e, se superata, consente l’estinzione del reato. Nel medesimo ambito è di grande interesse l’apertura alla “mediazione penale”: il giudice invita l’imputato e la parte offesa a presentarsi a un ufficio di mediazione; i mediatori, poi, preparano imputato e vittima all’incontro. In questo modo torna possibile rielaborare i fatti secondo verità, rimettere al centro la persona offesa, costruire un percorso ripartivo, del quale il giudice potrà tenere conto.La mediazione penale, quindi, chiama in causa anche le vittime dei reati?Chi ha subito un reato non chiede, nel profondo, ritorsione. Chiede, da un lato, la verità e il riconoscimento che quanto accaduto è stato un’ingiustizia, dall’altro che ciò serva affinché non si ripeta in futuro. Se la giustizia si riduce a una bilancia che riproduce negli anni della pena la negatività del reato, la vittima resta sola nel suo dolore, senza aver avuto modo di rielaborarlo. Abbiamo bisogno di modalità sanzionatorie che cerchino di gettare un ponte sopra la frattura che quel reato ha prodotto e che nessuna pena potrà mai colmare.
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