lunedì 30 aprile 2018
Santi Consolo (Dap): costruiamo percorsi di reinserimento. E propone sconti di pena per chi fa lavori socialmente utili
Il laboratorio elettronico del carcere di Bollate (Omnimilano)

Il laboratorio elettronico del carcere di Bollate (Omnimilano)

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Santi Consolo ripete i numeri quasi meccanicamente. «L’ultimo giorno del 2016 i detenuti che lavoravano erano 16.251, un anno dopo 18.404...». Una pausa quasi impercettibile precede un calcolo che il capo del Dap ha già fatto cento volte. «... In dodici mesi sono 2.153 in più». Un miracolo? Consolo ora scuote la testa: «No, soltanto un dovere, un nostro dovere». Per qualche minuto il capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria vola alto. Parla del carcere che vorrebbe. «Utile». «Aperto». «La scommessa è dare a ogni detenuto un ruolo, un futuro, una prospettiva. È costruire un percorso di reinserimento nella società. La strada? Una sola: il lavoro. E poi diamo lavoro a chi chiede lavoro e saranno meno i crimini». Consolo racconta quasi con orgoglio l’obiettivo finale: «Ogni detenuto che vuole lavorare deve poterlo fare. Perché solo così si fa vera prevenzione, solo così si costruisce una società più sicura. I dati parlano chiaro: chi lavora non ricade nel delitto».

Siamo nella sede del Dap, un mega edificio alla periferia Nord di Roma. L’ufficio di Consolo è spazioso, luminoso. C’è una foto del Capo dello Stato. Tanti fascicoli sulle grandi questioni legate al mondo carcerario. Una scrivania e un divano di pelle. «Non ho cambiato nemmeno una sedia, la mia stella polare è il risparmio e non capisco una certa mania a rendere gli uffici belli. Noi abbiamo il dovere di far quadrare i conti, il superfluo deve restare superfluo». Si capisce subito che i conti sono il pallino del capo del Dap. «A scuola mi piaceva la matematica... Pensavo che nella vita bisogna sapere sempre fare bene i conti e ora quell’attitudine provo ad applicarla nelle scelte dell’amministrazione penitenziaria», ci dice sorridendo. Consolo parla di progetti. Di protocolli d’intesa. Racconta il Made in carcere con la forza dei numeri. Parla della collaborazione con i grandi della moda. E poi le serre. Le coltivazioni. Le officine. «Nel carcere di Bollate c’è addirittura un ristorante di gran qualità. Chef e camerieri sono detenuti. Il nome? In galera», dice Consolo. E sorride ancora.

Qual è il suo sogno?
Trasformare l’amministrazione penitenziaria nella più grande impresa italiana. Chi fa il mio lavoro deve essere un po’ anche manager. Deve avere una mentalità imprenditoriale, deve puntare su progetti che funzionano e sapere schivare quelli destinati a fallire. Quando mi fanno una proposta la prima cosa che mi chiedo è quanto costa e quanto può portare di utile... Mi creda, nelle carceri realizziamo prodotti di qualità a costi contenuti. E soprattutto possiamo dare lavoro a cinquantamila detenuti: un potenziale di lavoro enorme, molto più della vecchia Fiat.

Far lavorare i detenuti ha però un costo. Ci sono le risorse?
Le grandi riforme non necessitano di grandi risorse. Pensi alle traduzioni dei detenuti con i mezzi aerei. I biglietti costano tantissimo e poi ci sono i disagi per i passeggeri. E allora abbiamo fatto un accordo: la Guardia di Finanza deve fare un certo numero di voli di addestramento e questi voli vengono utilizzati per la traduzione dei detenuti. Si guadagna in sicurezza e c’è un risparmio di personale. E se dovessimo avere bisogno di ulteriori voli potremmo compensare la Finanza con i nostri servizi. Magari riparando le loro auto nelle officine che abbiamo aperto in diversi istituti.

Insisto: ci sono le risorse?
Il ministro Orlando proprio quest’anno ha ottenuto un finanziamento di 150 milioni. 50 milioni all’anno per tre anni. E parallelamente le retribuzioni dei detenuti sono aumentate e adeguate secondo l’ordinamento penitenziario del 1975. L’Italia è brava e per molto aspetti è all’avanguardia rispetto al resto dell’Europa. Ma pensiamo anche alla polizia penitenziaria.

Il manager Consolo che idee ha per far crescere il lavoro nelle carceri con risorse sempre limitate?
Serve fantasia. Abbiamo colonie agricole in Sardegna: settemila ettari di boschi e campi delle tre colonie agricole di Mamone, Isili e Is Arenas che producono formaggio, olio, miele... Abbiamo coltivazioni in serra a Castelfranco Emilia e presto a Rebibbia. A Carinola abbiamo avviato una collaborazione con l’azienda Mutti per la coltivazione di pomodori e la produzione di conserve. Ma la vera frontiera è quella dei lavori socialmente utili. A Roma l’accordo sottoscritto a dicembre con la sindaca Raggi sta dando ottimi frutti: detenuti delle carceri romane sono impiegati per la cura dei spazi verdi della Capitale. A Palermo ne stiamo mettendo a punto un altro per il recupero del fiume Oreto che oggi è una discarica a cielo aperto.

I lavori socialmente utili non prevedono retribuzione?
Quando penso ai lavori socialmente utili penso a un salario diverso. Se c’è un percorso che porta a un reinserimento, che lo agevola, perché non pensare a uno sconto di pena? Perché non dire ogni tre giorni di lavoro un giorno in meno di detenzione? Perché non prevedere maggiore facilità di accesso alle misure alternative?

La politica capirebbe? E la società?
Capirebbero. Sia la politica, sia la società. La sfida è puntare sul lavoro per dare una opportunità a una persona e strapparla a una vita da criminale. Creiamo lavoro. I numeri sono cresciuti e possono crescere ancora. Le faccio un piccolo calcolo matematico: abbiamo 193 istituti di pena in circa altrettanti comuni. Allora ogni comune che ospita un carcere si attivi per offrire venti posti nei lavori socialmente utili ai detenuti...

Diceva "serve creatività per creare lavoro e fare utili..."
Esattamente. Nel carcere di Biella partirà il laboratorio per il confezionamento delle uniformi della polizia penitenziaria. A Pescara produciamo scarpe da lavoro per i detenuti. A regime saranno 18 mila paia ogni anno. Sono scarpe belle, comode e costano nettamente meno rispetto al mercato tradizionale. Ma oltre al lavoro è importante ricordare i corsi di formazione che, grazie al contributo delle regioni, forniscono ai detenuti abilità certificate e spendibili dopo l’espiazione della pena, che potranno utilizzare per un concreto inserimento nel mondo del lavoro.

I progetti si moltiplicano...
Ci sono autofficine a Sant’Angelo dei Lombardi, Napoli e Bollate. E le stiamo aprendo anche a Catania e Roma. Abbattendo i costi possiamo fare la manutenzione a tutti i nostri automezzi. Abbiamo acquisito mezzi confiscati alla criminalità organizzata e li abbiamo riconvertiti in auto in uso all’amministrazione.

Lavoro è la strada per frenare il rischio terrorismo?
È la migliore strada. I soggetti deboli sono quelli più manipolabili e la debolezza è legata alla mancanza di prospettive, di futuro. Il detenuto non deve trascorrere un periodo di sofferenza: se la parentesi carcere si trasforma in un danno quel danno si riverserà sulla collettività. Trasformare la pena in un castigo vuol dire contribuire a creare una società insicura e pericolosa.

L’opinione pubblica capisce l’equazione lavoro-sicurezza?
Io dico di sì. Far lavorare i detenuti porta consenso sociale. E poi è sbagliato pensare che il detenuto debba passare il tempo solo aspettando la libertà. Il carcere è un periodo della vita. Va sfruttato. Va utilizzato per crescere. E dovere dell’amministrazione è dare questa opportunità.

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