giovedì 22 marzo 2018
L'epilogo della «lunga agonia di un popolo». Il faro di Avvenire sui costi del conflitto. L'esodo dei «boat people» e i progrom in Cambogia
Soldati Usa nella giungla cambogiana (Archivio Ansa)

Soldati Usa nella giungla cambogiana (Archivio Ansa)

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Continua il viaggio lungo 50 anni della nostra storia. È la storia di «Avvenire», che taglierà il traguardo il prossimo 4 dicembre, e insieme del mondo che su queste pagine è stato raccontato a partire da un punto di vista originale e inconfondibile. È l’impegno che consegnò come una missione il beato Paolo VI quando volle la nascita di un quotidiano nazionale di tutti i cattolici italiani, punto di incontro vivo tra le loro molteplici voci e insieme luogo di dialogo con le diverse anime della società.

Macché Parigi, altro che pace. Un tenero inganno con i protagonisti in tacito accordo. Gli accordi di Parigi, due anni prima, erano stati solo la ratifica del disimpegno americano. Ma in Indocina la guerra non era mai cessata. E nella primavera del 1975 giunge al suo epilogo annunciato: vietcong e nordvietnamiti vincono le ultime resistenze dei sudvietnamiti e prendono la capitale. Il primo maggio Avvenire titola: «La guerra in Vietnam è finita. Saigon in mano ai vietcong». Commenti? Avvenire ne ha già proposti tanti, negli anni. Stavolta compie una scelta inusuale. A pagina 3 pubblica «Il costo del conflitto», una manciata di righe: dal 1961, 141 miliardi di dollari, 56mila militari americani caduti, 241mila sudvietnamiti, più di un milione di nordvietnamiti e vietcong. Per non dire dei civili. Le ultime tre parole sono: «Non occorrono commenti». Non occorrono perché quel freddo bilancio è il commento più tragico ed efficace.

La fine viene raccontata a puntate per un mese. Primo aprile: «In Vietnam si sfalda il governo di Thieu. Il presidente Lon Nol lascia la Cambogia». A pagina 3 il commento di Enzo Ferraiuolo: «Due dittatori al tramonto». Avvenire non tace l’esodo di massa di vietnamiti in fuga verso sud. Il 2 aprile in «La lunga agonia di un popolo». Ferraiuolo appare titubante: «È difficile, in questo momento di dramma collettivo, stabilire da che parte è la responsabilità dell’"esodo di massa"». Il 3 aprile, udienza generale del mercoledì, il titolo è: «Paolo VI sul martirio del popolo vietnamita».



Martirio... Al contrario di Ferraiuolo, padre Piero Gheddo ha le idee chiare su quanto sta accadendo in Indocina. D’altronde laggiù lui c’è stato, uno dei pochi a muoversi con disinvoltura. Il suo lungo articolo del 4 aprile («Le motivazioni di un dramma») è una voce decisamente fuori dal coro della stampa italiana. Oggi la diremmo "politicamente scorretta". «È chiaro – scrive il religioso del Pime – che gli accordi di pace di Parigi del gennaio 1973 sono serviti solo a liberare gli americani dalla trappola vietnamita in cui s’erano cacciati dieci anni prima (...). È altresì evidente che nessuna delle forze vietnamite in campo ha rispettato la lettera e lo spirito degli accordi di Parigi: non la lettera perché hanno continuato a combattersi quando a Parigi avevano firmato il "cessate il fuoco". Non lo spirito degli accordi perché ambedue le forze non si sono fidate l’una dell’altra».

E adesso? «Nell’ora del dramma finale – prosegue Gheddo – il popolo vietnamita deve sentirsi abbandonato da tutti al suo destino, che rischia di essere quello di vedersi imposta una dittatura non voluta e di fronte alla quale cerca ancora di salvarsi fuggendo verso improbabili rifugi o estreme cittadelle di difesa. Questa è la sostanza del dramma vietnamita, di cui l’opinione pubblica italiana forse non si è ancora resa conto».

No, la voce (quasi) unica vuole che i vietcong siano i liberatori attesi a braccia spalancate dal popolo angariato dalla dittatura fascista. Ma, osserva Gheddo «scorrettamente», i vietnamiti scappano sempre e solo in una direzione a partire dal 1954-55. Nessuno è fuggito in senso contrario, neanche chi si opponeva alla dittatura di Thieu...

Gheddo è consapevole della sua "scorrettezza": «Oggi può essere "impolitico" fare simili affermazioni. Pazienza. Non si tratta di fare dell’anti-comunismo viscerale. Il comunismo rappresenta una forza importante nel nazionalismo vietnamita: è giusto riconoscerlo. Ma questo non è un motivo sufficiente perché i comunisti vietnamiti debbano imporre a tutto il paese la legge del più forte e la loro dittatura (...). Caduto Thieu (e caduto Lon Nol), bisogna che i vincitori sappiano che non possono fare quel che vogliono: gli accordi di Parigi valgono ancora».

La tragedia dei boat people, gli 800mila vietnamiti in fuga disperata sulle "carrette del mare" nei cinque anni successivi, darà ampiamente ragione a Gheddo. Nessuna condiscendenza, peraltro, verso alcun dittatore. Lo stesso giorno a pagina 3 Elio Maraone traccia un profilo severo («Un "mandarino" in uniforme») di Nguyen Van Thieu: «Il meno che si possa dire di lui è che ha mancato, in questi lunghi e tragici anni di dispotico governo, al primo dovere di uno statista: agire per il bene del proprio popolo».

Cala mestamente il sipario su un’Indocina blindata. Eppure dell’inferno scatenato in Cambogia dai khmer rossi qualcosa trapela. «Massacri in Cambogia. Nel paese sarebbe in atto un bagno di sangue e i morti si conterebbero a migliaia» (6 maggio). «Drammatiche testimonianze di fuggiaschi. Cambogia: deportazioni in massa e saccheggi» (9 maggio). «Massacri in massa» (10 maggio). E l’odissea dei boat people è cominciata: «Poche speranze nel futuro delle migliaia di fuggiaschi che hanno lasciato il paese via mare. Sfiniti dal viaggio, trovano fredda accoglienza. Molti sono cattolici del nord» (8 maggio). La profezia di Gheddo si sta compiendo.

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